24 marzo, 2008

PROMEMORIA 24 marzo 1944 - Eccidio delle Fosse Ardeatine


Eccidio delle Fosse Ardeatine: 335 prigionieri sono fucilati per rappresaglia all'attacco di via Rasella del 23 marzo.
L'eccidio delle Fosse Ardeatine è il massacro compiuto a Roma dalle truppe di occupazione della Germania nazista il 24 marzo 1944, ai danni di 335 civili italiani, come atto di rappresaglia per un attacco eseguito da partigiani contro le truppe germaniche avvenuto il giorno prima in via Rasella. Per la sua efferatezza, l'alto numero di vittime, e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, è diventato l'evento simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo dell'occupazione.

Le "Fosse Ardeatine", antiche cave di pozzolana site nei pressi della via Ardeatina, scelte quali luogo dell'esecuzione e per occultare i cadaveri degli uccisi, sono diventate un monumento a ricordo dei fatti e sono oggi visitabili.
Inquadramento storico

L'eccidio delle fosse Ardeatine - con le 335 vittime innocenti ivi trucidate il 24 marzo 1944 - rappresenta una delle tappe culminanti nel martirio che Roma subì dai nazifascisti occupanti e, dal cielo, per opera dei bombardieri Alleati. Per meglio comprendere il clima nel quale tale tragico crimine fu consumato, è necessario inquadrarlo nel contesto drammatico da cui esso trasse origine e nel quale si svolse uno tra i più efferati - ma non l'unico - dei fatti di sangue che sconvolsero la capitale, coinvolta in prima linea nel secondo conflitto mondiale.

Sorto all'indomani della caduta del regime fascista (25 luglio 1943), il governo Badoglio, aveva dichiarato unilateralmente Roma "città aperta" solo trenta ore[1] dopo il secondo bombardamento che l'aveva sconvolta. L'attacco, eseguito da bombardieri statunitensi il 13 agosto 1943, aveva causato danni forse ancora maggiori del primo, che l'aveva colpita il 19 luglio: nei due bombardamenti morirono oltre 2.000 civili innocenti e parecchie altre migliaia rimasero feriti, senza casa e lavoro. In città venivano così a mancare servizi essenziali, mentre la fame si diffondeva e la capitale si faceva invivibile. Gli Alleati chiarirono immediatamente, e con ogni mezzo, che la dichiarazione di "città aperta" del governo italiano - unilaterale e priva dei necessari requisiti di smilitarizzazione e verifica da parte di osservatori neutrali - non aveva alcun valore[2] e, non a caso, la città fu nuovamente bombardata numerose volte, sino alla liberazione il 4 giugno 1944.

Dopo l'8 settembre 1943, con l'armistizio e la fuga del Re Vittorio Emanuele III e di Badoglio, la città si trovò nuovamente a pagare un grave tributo di sangue: tra il 9 e il 10 settembre, nella battaglia che i militari italiani abbandonati a sé stessi e cittadini combattono per opporsi all'occupazione nazista cadono circa 400 soldati e 200 civili.

Roma - già duramente provata dai bombardamenti e ormai preda dell'occupante tedesco e del governo fantoccio del fascismo repubblicano - è percorsa da sentimenti di disperazione e di ribellione sin dall'inizio dell'occupazione nazifascista e, significativamente, è il capoluogo che registra il maggior tasso di renitenti alla leva[3], superiore del 15-20% alla media, mentre, secondo i dati dei Servizi segreti USA, solo il 2% dei cittadini romani si presenta spontaneamente alle chiamate al lavoro o alle armi imposte dai comandi del Reich[4].

Il volto che la città viene assumendo in un contesto nel quale all'offesa dal cielo si aggiunge l'oppressione dell'occupante germanico e l'effimera e grottesca - ma non per questo meno tragica - reazione fascista è, per certi versi, contraddittorio: la disperazione spinge alcuni ad ogni sorta di infamia e doppiogiochismo (ne è un egregio esempio l'ufficio di polizia guidato dal generale Umberto Presti, protagonista della più dura repressione da un lato, mentre sosteneva la nascente Resistenza dall'altro), mentre la maggioranza finisce per sviluppare via via sempre più fitte e capillari reti di solidarietà clandestine che, nell'insieme, finiscono per definire il fermo rifiuto di gran parte della popolazione per il regime nazifascista e creano naturalmente il terreno adatto allo sviluppo di un forte movimento di Resistenza.

I tedeschi, veri padroni della città, non tardano a cogliere il valore politico di Roma, con la presenza del Vaticano e, in un primo tempo, tentano di far fruttare propagandisticamente la vacua dichiarazione di "città aperta" - emessa da un governo ormai loro nemico - e, per quanto possibile, evitano un'intensa militarizzazione, facendo passare il grosso dei rifornimenti destinati alla Linea Gustav ai margini dell'Urbe.

Lo sbarco di Anzio, tuttavia, cambia il quadro tattico e, il 22 gennaio 1944, l'intera provincia di Roma viene dichiarata "zona di operazioni" sotto la responsabilità del generale Eberhard von Mackensen, comandante della XIV Armata, un reduce dai rigori del fronte russo. Alle sue dipendenze è il comandante della piazza di Roma, tenente generale della Luftwaffe Kurt Maltzer. Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante del fronte meridionale, considera i due incapaci della «durezza brutale, forse anche ingiusta, ma necessaria nel quinto anno di guerra»[5] e, per questo, nomina capo della Gestapo di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell'ordine in città, l'ufficiale delle SS Herbert Kappler, già resosi protagonista nella capitale della pianificazione della liberazione di Benito Mussolini, e di due particolarmente tragiche e sanguinose offese alla città: la razzia del ghetto ebraico e la successiva deportazione, il 15 ottobre 1943 di 1.259 ebrei romani verso i Campi di sterminio.

La campagna del terrore avviata da Kappler, che organizza frequenti rastrellamenti, arresta numerosi sospetti antifascisti ed organizza, in via Tasso, un tristemente noto centro di detenzione e tortura, assieme alla vicinanza del fronte e al rombo dei cannoni che giunge dalla vicina testa di ponte alleata ad Anzio, gettano Roma in prima linea e rendono la città logicamente esposta a divenire pienamente teatro di guerra.

È in questo quadro che, per impulso del Partito Comunista - che ha organizzato la propria struttura militare clandestina a Roma, dividendola in otto settori, ciascuno affidato a un Gruppo di Azione Patriottica, sin dagli ultimi mesi del 1943 - la Resistenza giunge alla determinazione di reagire con le armi alla spirale di violenza scatenata da Kappler e di attaccare militarmente l'occupante. I due comandanti dei GAP centrali, dai quali dipende la rete clandestina, Franco Calamandrei detto "Cola" e Carlo Salinari detto "Spartaco" avranno così un ruolo decisivo nella preparazione dell'attacco che si decide di condurre contro un reparto della polizia tedesca, che rappresenta una minaccia costante per la Resistenza e per la popolazione in generale.
La rappresaglia

In un primo momento, il generale Mältzer comandante della piazza di Roma, accorso sul posto, parlò stravolto di una rappresaglia molto grave. Dello stesso parere fu inizialmente Hitler.

Successivamente vari ragionamenti indussero a limitare alquanto la rappresaglia, e l'ordine fu di 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso. La fucilazione di 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso fu ordinata personalmente da Adolf Hitler, nonostante la convenzione dell'Aia del 1907 e la Convenzione di Ginevra del 1929 nel contemplare il concetto di rappresaglia ne limitassero l'uso secondo i criteri della proporzionalità rispetto all'entità dell'offesa subita e della salvaguardia delle popolazioni civili.

Nella scelta delle vittime, furono privilegiati criteri di connessione con i partigiani e di appartenenza alla religione ebraica, e se in un primo tempo si tendette ad escludere persone rastrellate al momento e/o detenuti comuni, successivamente un certo numero di vittime fu poi costituito da reclusi condannati per delitti di natura non politica. Costoro furono prelevati, insieme a membri della resistenza e ad altri antifascisti, dal carcere romano di Regina Coeli, dove erano tenuti prigionieri.

Sembra che circa 30 appartenessero alle formazioni clandestine di tendenze monarchiche, circa 52 alle formazioni del Partito d'Azione e Giustizia e Libertà, circa 68 a Bandiera Rossa, un'organizzazione comunista trockijsta, e circa 75 fossero di religione ebraica. Altri, fino a raggiungere il numero previsto, furono detenuti comuni. Sembra che circa metà dei giustiziati fossero partigiani detenuti. Di essi cinquanta furono individuati e consegnati ai nazisti dal questore fascista Caruso. Non mancarono tuttavia tra gli uccisi i rastrellati a caso e gli arrestati a seguito di delazioni dell'ultim'ora.

L'esecuzione

Il massacro fu organizzato ed eseguito da Herbert Kappler, all'epoca ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma, già responsabile del rastrellamento del Ghetto di Roma nell'ottobre del 1943 e delle torture contro i partigiani detenuti nel carcere di via Tasso.

L'ordine di esecuzione riguardò 320 persone, poiché inizialmente erano morti 32 soldati tedeschi. Durante la notte successiva all'attacco di via Rasella morì un altro soldato tedesco e Kappler, di sua iniziativa, decise di uccidere altre 10 persone. Erroneamente furono aggiunte 5 persone in più ed i tedeschi, per eliminare scomodi testimoni, uccisero anche loro.

I tedeschi, dopo aver compiuto il massacro, infierendo sulle vittime, fecero esplodere numerose mine, per far crollare le cave ove si svolse il massacro e nascondere o meglio rendere più difficoltosa la scoperta di tale eccidio.

I sopravvissuti del Polizeiregiment "Bozen", si rifiutarono di vendicare i propri compagni uccisi[

Un falso - artatamente costruito per cercare di suscitare ostilità nei confronti della Resistenza - definitivamente dimostrato dagli studi storici, fu quello del manifesto affisso sui muri di Roma (a strage avvenuta) in cui si prometteva di non dar corso alla decimazione in caso di consegna degli autori dell'attacco di via Rasella.

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