18 luglio, 2008
PROMEMORIA 18 luglio 64 Grande incendio di Roma:
Grande incendio di Roma: Il fuoco inizia a bruciare nell'area mercantile di Roma e ben presto va fuori controllo. Si racconta che l'Imperatore Nerone suoni la lira e canti, mentre osserva l'incendio da distanza di sicurezza.
Il grande incendio di Roma fu un incendio che colpì la città di Roma sotto l'imperatore Nerone.
L'incendio scoppiò nella notte del 18 luglio 64 (ante diem XV Kalendas Augustas, anno DCCCXVII a.U.c. (ab Urbe condita) nella zona del Circo Massimo e infuriò per nove giorni complessivamente, propagandosi in quasi tutta la città.
Tre delle quattordici regioni (quartieri) che componevano la città (la III, Iside e Serapis, attuale colle Oppio, la IX, Circo Massimo, e la X, Palatino) furono totalmente distrutte, mentre in altre sette si registrarono danni relativamente più limitati. I morti furono migliaia e circa duecentomila i senzatetto. Numerosi edifici pubblici e monumenti andarono distrutti, insieme a circa 4.000 insulae e 132 domus.
Il contesto
Al momento dell'incendio Roma era una delle metropoli maggiori del mondo antico, sebbene non avesse ancora raggiunto il culmine del suo sviluppo.
Come in gran parte delle città dell'epoca, gli incendi avvenivano a Roma con una certa frequenza, grazie alla tipologia costruttiva degli edifici antichi, che comprendevano numerose parti in legno (solai, sopraelevazioni, ballatoi e sporgenze) e utilizzavano in gran parte per l'illuminazione e la cucina (o per il riscaldamento) fiamme libere. Le vie erano strette e tortuose e lo stretto accostarsi delle insulae, facilitava la propagazione delle fiamme.
Lo spegnimento degli incendi era assicurato a Roma da un corpo di sette coorti di vigiles, che si occupavano tuttavia anche di ordine pubblico. Le coorti dei vigili erano dislocate, con caserme e posti di guardia (excubitoria), in ciascuna delle quattordici regioni augustee. Lo spegnimento degli incendi era tuttavia ostacolato dalla ristrettezza degli spazi di manovra e dalla difficoltà di portare rapidamente l'acqua dove serviva.
Oltre al grande incendio neroniano, tra i maggiori incendi avvenuti a Roma si ricordano:
* nel 390 a.C. l'incendio che distrusse la città a seguito della presa della città da parte dei Galli;
* nel 213 a.C. incendio nella zona del Foro Boario e del Foro Olitorio;
* nel 27 a.C. incendio del Celio, sotto Tiberio, che avviene quasi in contemporanea del famoso crollo del teatro di Fidene;
* nel 68 un incendio dovuto ai combattimenti tra i sostenitori di Vespasiano e di Vitellio distrusse il Campidoglio;
* nell'80 un altro incendio fa numerosi danni sotto l'imperatore Tito;
* nel 190 un incendio distrusse una parte della città, e l'imperatore Commodo pretese di rifondarla con il nome "Colonia Commodiana";
* nel 283 un incendio danneggia gli edifici del Foro Romano e del centro monumentale sotto l'imperatore Carino.
Fonti antiche
Tacito
Lo storico romano Tacito (Annales, XV, 38-44) descrive l'avvenimento come il più grave e violento incendio di Roma. Sin dall'inizio del racconto evidenzia come incerte le origini del disastro, se accidentale o doloso, ad opera di Nerone ("forte an dolo principis incertum"). Il suo resoconto è quello più ricco di notizie.
Evoluzione dell'incendio e primi soccorsi
L'incendio, iniziato presso il Circo Massimo, sarebbe stato alimentato dal vento e dalle merci delle botteghe, estendendosi rapidamente all'intero edificio. Sarebbe quindi risalito sulle alture circostanti, diffondendosi con grande rapidità senza trovare impedimenti. I soccorsi sarebbero stati ostacolati dal gran numero di abitanti in fuga e dalle vie strette e tortuose.
Tacito menziona tuttavia anche dei personaggi che avrebbero impedito con minacce di spegnere le fiamme, o addirittura le avrebbero attizzate, dichiarando di star obbedendo agli ordini: lo storico ipotizza che si potesse trattare sia di saccheggiatori intenti alla propria opera, ovvero di ordini effettivamente emessi ("nec quisquam defendere audebat, crebris multorum minis restinguere prohibentium, et quia alii palam facies iaciebant atque esse sibi auctorem vociferabantur, sive ut raptus licentius exercerent seu iussu").
Nerone, che si trovava ad Anzio, sarebbe tornato in città quando le fiamme minacciavano la sua residenza (Domus Transitoria) e non sarebbe riuscito a salvarla. Si sarebbe occupato di soccorrere i senza tetto, aprendo i monumenti del Campo Marzio, allestendovi dei baraccamenti e facendo arrivare i viveri dai dintorni. Il prezzo del grano sarebbe stato inoltre abbassato a tre sesterzi il moggio.
Tali provvedimenti, emessi secondo Tacito, per ottenere il favore popolare, non avrebbero tuttavia ottenuto lo scopo, a causa della diffusione di una voce, secondo la quale l'imperatore si era messo a cantare della caduta di Troia, davanti all'infuriare dell'incendio visibile dal suo palazzo ("quae quamquam popularia in inritum cadebant, quia pervaserat rumor ipso tempore flagrantis urbis inisse eum domesticam scaenam et cecinisse Troianum excidium, praesentia mala vetustis cladibus adsimulantem").
Il secondo incendio e i danni
Al sesto giorno l'incendio si sarebbe arrestato alle pendici dell'Esquilino, dove erano stati abbattuti molti edifici per fare il vuoto davanti all'avanzata delle fiamme. Tuttavia scoppiarono altri incendi in luoghi aperti e le fiamme fecero questa volta meno vittime, ma distrussero un maggior numero di edifici pubblici. Questo secondo incendio sarebbe divampato a partire da alcuni giardini di proprietà di Tigellino, prefetto del pretorio e amico dell'imperatore: questa origine avrebbe secondo Tacito fatto nascere altre voci, sul desiderio dell'imperatore di fondare una nuova città e darle il suo nome (plusque infamiae id incendium habuit, quia praediis Tigellini Aemilianis proruperat videbaturque Nero condendae urbis novae et cognomento suo appellandae gloriam quaerere).
Tacito passa quindi a descrivere i danni: dei quattordici quartieri di Roma solo quattro erano intatti, mentre tre erano completamente rasi al suolo e altri sette conservavano solo pochi resti degli edifici. Elenca quindi alcuni antichi templi[1] e santuari andati perduti, e cita le opere di arte greca e i testi antichi scomparsi.
La ricostruzione
La ricostruzione della città viene descritta a partire dalla Domus aurea, la nuova residenza che l'imperatore si sarebbe fatto edificare approfittando del disastro. La riedificazione sarebbe avvenuta quindi nel resto della città secondo ampie vie diritte e isolati di limitata altezza, con vasti cortili interni e portici davanti le facciate, che Nerone avrebbe promesso di pagare a sue spese.
Tacito cita inoltre una serie di regole stabilite da Nerone: che gli edifici non potessero avere muri in comune e che alcune parti fossero costruite in pietra gabina o albana, considerate refrattarie al fuoco. I proprietari avrebbero inoltre dovuto curare che fosse sempre pronto il necessario per spegnere gli incendi. Per assicurare un maggiore diffusione dell'acqua portata dagli acquedotti, sarebbero inoltre stati repressi gli usi abusivi da parte dei privati.
L'imperatore si sarebbe inoltre occupato di far sgombrare le macerie, facendole portare nelle paludi di Ostia nei viaggi di ritorno delle navi che risalivano il Tevere verso Roma con il grano. La riedificazione degli edifici sarebbe infine stata incentivata da premi in denaro, che potevano essere riscossi entro un anno, una volta la casa completata.
Tacito conclude citando l'approvazione per i provvedimenti, ma anche l'esistenza di voci di dissenso, secondo le quali le precedenti vie strette avrebbero offerto una maggiore protezione dalla calura del sole.
L'accusa ai cristiani
Secondo lo storico inoltre nessuno di questi provvedimenti riusciva a sopire le voci sui sospetti della colpevolezza dell'imperatore nello scoppio dell'incendio: per questo motivo Nerone avrebbe dunque accusato come colpevoli i cristiani, che Tacito descrive come una setta invisa a tutti e una superstizione odiosa. Secondo lo storico, prima sarebbero stati arrestati quanti confessavano e quindi, su denuncia di questi, ne sarebbero stati condannati moltissimi, ma, ritiene Tacito, non tanto a causa del crimine dell'incendio, quanto per il loro "odio del genere umano ("igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt").
Descrive quindi i supplizi a cui i cristiani sarebbero stati sottoposti per opera di Nerone, che nonostante la loro colpevolezza, secondo lo storico, causavano pietà, in quanto puniti non per il bene pubblico ma per la crudeltà di uno solo ("unde quamquam adversus sontes..., tamquam non utilitate publica, sed in saevitiam unius absumerentur").
Svetonio
Lo storico Svetonio nelle sua opera sui primi imperatori ("De vita Caesarum", anche conosciuta con il titolo italiano di "Vite dei dodici Cesari") nella vita dedicata a Nerone (Nero, 38), ci offre un breve resoconto dell'incendio, fortemente ostile verso questo imperatore: lo accusa direttamente di aver incendiato la città, in quanto disgustato dalla bruttezza degli antichi edifici e dalle vie strette ("nam quasi offensus deformitate veterum aedificorum etangustiis flexurisque vicorum, incendit urbem").
Svetonio riporta quindi una serie di avvenimenti, in genere citati anche da Tacito, dandone tuttavia un'interpretazione fortemente ostile a Nerone:
* gli incendiari, visti all'opera secondo Svetonio da alcuni senatori nelle loro stesse proprietà, sono direttamente identificati con i suoi servi ("cubicularios");
* gli edifici abbattuti in corrispondenza di dove poi sorgerà la "Domus aurea, descritti come magazzini (horrea) con i muri in pietra, tanto da richiedere l'intervento delle macchine da guerra, potrebbero far parte delle operazioni descritte da Tacito e volte ad arrestare il fronte dell'incendio con la creazione di un'area vuota, mentre per Svetonio il motivo va ricercato nel desiderio dell'imperatore di ottenere lo spazio per il suo nuovo palazzo;
* la scena di Nerone che canta della caduta di Troia viene riportata non come una voce popolare, ma come certamente avvenuta, aggiungendo i particolari del suo svolgersi sulla cosiddetta "torre di Mecenate" e che l'imperatore avrebbe indossato i propri abiti di scena;
* l'imperatore si curò dell'eliminazione delle macerie e dei cadaveri, secondo Svetonio, esclusivamente per poter saccheggiare tutto ciò che rimaneva tra le rovine;
* infine si aggiunge il particolare che le province e i privati offrirono contributi in denaro per la ricostruzione: secondo Svetonio quelli che l'imperatore avrebbe sollecitato rischiarono di mandare in rovina le province.
Cassio Dione
Nella monumentale "Storia di Roma" scritta da Cassio Dione agli inizi del III secolo, i libri che trattano del regno di Nerone ci sono giunti soltanto in una epitome (riassunto), compilato dal monaco bizantino Giovanni Xiphilinus nell'XI secolo. Anche in questo caso la responsabilità dell'incendio è attribuita direttamente a Nerone.
Il resoconto dell'incendio (LXII, 16-18) inizia riferendo come da lungo tempo Nerone accarezzasse l'idea di veder perire una città tra le fiamme durante la sua vita, come Priamo di Troia. Viene descritto quindi il modo in cui i suoi uomini avrebbero appiccato incendi in diverse parti della città, fingendo risse di ubriachi o altri disordini e rendendo impossibile capire quanto stava accadendo. Si ebbe pertanto una grande confusione, che accrebbe il numero delle vittime.
L'incendio durò diversi giorni e secondo Dione, molte case sarebbero state distrutte da uomini che manifestavano la volontà di salvarle e altre furono incendiate da quegli stessi che erano venuti ad offrire assistenza; gli stessi soldati avrebbero mirato più a propagare l'incendio che a spegnerlo. Le fiamme venivano alimentate e diffuse anche dal vento.
Dione racconta che intanto l'imperatore sarebbe salito sul tetto del suo palazzo e avrebbe cantato accompagnandosi con la lira un brano sulla "Caduta di Troia". Erano bruciati tutto il Palatino e due terzi della città. I sopravvissuti si lamentavano, maledivano gli autori dell'incendio, riferendosi più o meno nascostamente a Nerone, e giravano antiche profezie legate alla fine della città.
Infine si citano le contribuzioni, volontarie o sollecitate, per la ricostruzione, da parte di comunità o di privati cittadini, che Nerone stesso raccolse. Secondo Dione Cassio i Romani stessi vennero privati della distribuzione gratuita di frumento.
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