27 settembre, 2013

PROMEMORIA 27 ottobre 1991 A Bari nella notte tra il 26 e il 27 brucia il Teatro Petruzzelli

A Bari nella notte tra il 26 e il 27 brucia il Teatro Petruzzelli Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre 1991 il teatro fu devastato da un violentissimo incendio doloso e solo il collasso della cupola che crollando ha soffocato le fiamme ne ha impedito la distruzione. L'ultima opera rappresentata fu la Norma (per ironia della sorte, l'opera termina proprio con un rogo). Fu poi ricostruito ed inaugurato nel 2009. Il processo penale riguardante il rogo si è concluso con l'assoluzione degli imputati accusati di essere i mandanti e con la condanna degli esecutori materiali del fatto. Un altro procedimento civile che vedeva coinvolti la famiglia Messeni Nemagna ed il gestore temporaneo di allora Ferdinando Pinto accusato di non aver assicurato il Teatro, si è concluso con la condanna di quest'ultimo a pagare un risarcimento di 57 miliardi di lire in favore dei proprietari del Teatro, denari mai percepiti, perché il signor Pinto risulta totalmente incapiente. In compenso i Messeni Nemagna hanno dovuto pagare l'ingente tassa di registrazione della sentenza. Il 21 novembre 2002 presso il Ministero per i beni e le attività culturali (alla presenza dell'allora ministro Giuliano Urbani e del sottosegretario Nicola Bono) fu sottoscritto, sotto la supervisione dell' illustre Prof. Avv. Michele Costantino, un "Protocollo d'intesa", tra la famiglia proprietaria del Teatro ed il Comune, la Provincia di Bari e la Regione Puglia che recita nella premessa "soddisfa tutti gli interessi pubblici e privati" e prevedeva che il Teatro sarebbe stato consegnato dalle parti pubbliche, ricostruito, il 22 novembre 2006 alla famiglia proprietaria che lo avrebbe consegnato alla Fondazione. Quest'ultima avrebbe corrisposto, per l'uso del teatro per svolgere le sue attività e per l'uso in esclusiva del marchio, anche per quelle commercialmente rilevanti, un canone sottostimato ovvero decurtato della quota d'ammortamento della ricostruzione. I primi lavori, sgombero macerie, prove diagnostiche, consolidamento statico e ripristino delle coperture furono realizzati tra il 1993 e il 1998 direttamente dalla proprietà con l'utilizzo di un contributo statale. Finiti i soldi e in attesa della definizione dei rapporti con gli enti pubblici territoriali, il cantiere si è fermato per riprendere a opera delle parti pubbliche dopo la sottoscrizione del protocollo d'intesa del 2002. Fu realizzato (2005) il recupero del foyer e del suo apparato decorativo fortemente danneggiato dall'incendio ma sostanzialmente integro, il consolidamento delle fondamenta regolarmente collaudato, la predisposizione degli impianti e completato il rustico, poi un inspiegabile fermo. Il 3 ottobre del 2006, il Teatro è stato espropriato in base ad un articolo collegato alla legge finanziaria del 2006 divenendo proprietà del Comune di Bari. Il 30 aprile 2008 la Corte costituzionale con sentenza n. 128/2008[1] ha ridato la proprietà del Teatro alla famiglia Messeni Nemagna per mancanza dei requisiti di "straordinaria necessità e urgenza" previsti dall'esproprio. Durante il breve periodo dell'esproprio una lettera del sindaco pro tempore Michele Emiliano che lamentava presunte criticità statiche, faceva avviare le procedure della protezione civile, veniva nominato commissario speciale Angelo Balducci con il suo collaboratore De Santis. Il costo dei lavori aumentava del 156%, ma a distanza di soli due anni dal loro completamento (novembre 2010) sono già molti i cedimenti dell'intonaco e della pavimentazione, visibili infiltrazioni e deterioramento. Il Petruzzelli, ricostruito interamente con soldi pubblici nel 2008, è stato riconsegnato al Comune di Bari il 7 settembre 2009 che lo recepiva esclusivamente in qualità di custode, ma poi ne disponeva sulla base di una artificiosa triangolazione di verbali tra soprintendenza ministero e commissario Balducci. Inoltre il comune di Bari ignorando le sentenze che lo vedono parte soccombente e scavalcandone il pronunciamento definitivo invoca l'art, 5 della convenzione di concessione del suolo che prevede che: "Nel caso che l’edificio crollasse per terremoto, per incendio o per qualsiasi altra causa, il concessionario ed i suoi aventi causa avranno il diritto di rimettere il Politeama nello stato primitivo, purché i lavori siano intrapresi fra un anno e siano completati fra tre a contare dal giorno in cui il crollamento sia avvenuto; oppure avranno il dovere di sgombrare il suolo dei materiali e restituirlo libero al Comune fra un anno a contare dal sopra indicato termine". Il comune finge di ignorare che non c'è stato mai un crollo totale, tanto che lui stesso ha rilasciato concessione edilizia per "lavori di straordinaria manutenzione" e la soprintendenza dei beni culturali ha richiesto un "restauro con parziale integrazione". Il protocollo d'intesa contratto di diritto privato sottoscritto tra le parti pubbliche e private nel 2002, ha comunque definitivamente transatto ogni questione. Attualmente sono in atto contenziosi fin qui persi dalla famiglia proprietaria. La Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari è stata infine individuata come l'unico soggetto in grado di assumere la gestione, la manutenzione e l'assicurazione del Teatro Petruzzelli, sulla base di quanto scritto nell'ex art. 23 della legge 800, secondo il quale i comuni devono mettere a disposizione degli enti lirici i teatri di proprietà comunale, per dare seguito alle stagioni concertistiche. E così è stato anche se il Petruzzelli non appartiene al comune di Bari ma ai privati proprietari. Il Teatro Petruzzelli riapre ufficialmente domenica 4 ottobre 2009, quasi 18 anni dopo il rogo, sottotono con un concerto organizzato in soli cinque giorni, con l'esecuzione della Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven da parte dell'Orchestra della Provincia di Bari, diretta dal maestro Fabio Mastrangelo. Infatti quasi nessun quotidiano nazionale ne dà notizia. Il 6 dicembre 2009 viene inaugurata la prima stagione lirica nel Petruzzelli ricostruito dopo il rogo con Turandot di Giacomo Puccini, regia di Roberto De Simone e direzione orchestrale del maestro Renato Palumbo, che in settembre aveva concertato Tosca, ultimo titolo in cartellone in trasferta al Teatro Piccinni. Proprio una prova di questa Tosca è stata il primo test acustico per orchestra e cantanti dopo la ricostruzione.

25 settembre, 2013

PROMEMORIA 25 settembre 2005 Ferrara: il diciottenne Federico Aldrovandi muore pochi minuti dopo essere stato fermato dalla polizia nei pressi dell'ippodromo; sono indagati per la sua morte quattro poliziotti condannati in via definitiva il 21 giugno 2012 a 3 anni e 6 mesi per "eccesso colposo in omicidio colposo"

Ferrara: il diciottenne Federico Aldrovandi muore pochi minuti dopo essere stato fermato dalla polizia nei pressi dell'ippodromo; sono indagati per la sua morte quattro poliziotti condannati in via definitiva il 21 giugno 2012 a 3 anni e 6 mesi per "eccesso colposo in omicidio colposo" Il caso Aldrovandi è la vicenda giudiziaria e di cronaca che ruota intorno all'uccisione dello studente ferrarese diciottenne Federico Aldrovandi. Il 6 luglio 2009 quattro poliziotti vengono condannati in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione, per "eccesso colposo in omicidio colposo". Il 21 giugno 2012, dopo l'iter giudiziario, la corte di cassazione ha confermato la condanna. Il caso è stato, ed è tutt'oggi, oggetto di grande attenzione mediatica. La notte del 25 settembre 2005 Aldrovandi decise di tornare a casa a piedi dopo aver trascorso la serata al locale Link di Bologna[2]. Durante la nottata il giovane assunse sostanze stupefacenti e alcol, seppur in minime quantità[1]. Nei pressi di viale Ippodromo a Ferrara circolava, in quegli stessi minuti, la pattuglia "Alfa 3" con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri. Quest'ultimi descrivono l'Aldrovandi come un "invasato violento in evidente stato di agitazione", sostengono di "essere stati aggrediti dallo stesso a colpi di karate e senza un motivo apparente" e chiedono per questo i rinforzi. Dopo poco tempo arriva in aiuto la volante "Alfa 2", con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto. Lo scontro tra i quattro poliziotti e il giovane diventa molto violento (durante la colluttazione due manganelli si spezzano) e porta quest'ultimo alla morte, sopraggiunta per "asfissia da posizione", con il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Alle 6.04 la prima pattuglia richiedeva alla propria centrale operativa l'invio di un'ambulanza del 118, per un sopraggiunto malore. Secondo i tabulati dell'intervento, alle 6.10 arrivò la chiamata da parte del 113 a Ferrara Soccorso, che inviò sul posto un'ambulanza ed un'automedica, giunte sul posto rispettivamente alle 6.15 ed alle 6.18. All'arrivo sul posto il personale del 118 trovava il paziente “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena [...] era incosciente e non rispondeva”. L'intervento si concluse, dopo numerosi tentativi di rianimazione cardiopolmonare, con la constatazione sul posto della morte del giovane, per “arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale”. I dubbi della famiglia La famiglia venne avvertita solamente alle 11 del mattino, quasi cinque ore dopo la constatazione del decesso. I genitori, di fronte alle 54 lesioni ed ecchimosi presenti sul corpo del ragazzo, ritennero poco credibile la morte per un malore. Il 2 gennaio 2006 la madre di Federico apre un blog su internet, chiedendo che venga fatta luce su alcuni contorni oscuri di tutta la vicenda. Questo causò un'accelerazione delle indagini, che erano già in corso[4]. Il 20 febbraio 2006 vennero depositati i risultati della perizia medico legale disposta dal Pubblico Ministero, secondo la quale "la causa e le modalità della morte dell'Aldrovandi risiedono in una insufficienza miocardica contrattile acuta [...] conseguente all'assunzione di eroina, ketamina ed alcool”. Di tutt'altra voce un'indagine medico–legale, depositata il 28 febbraio 2006 dai periti della famiglia, secondo la quale dall'esame autoptico la causa ultima di morte sarebbe stata "un'anossia posturale", dovuta al caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l'immobilizzazione. Per quanto riguarda l'assunzione di droghe, la quantità di sostanze tossiche assunte dal giovane era la medesima rilevata dai periti della Procura, ma assolutamente non sufficiente a causare l'arresto respiratorio: in particolare l'alcol etilico (0,4 g/L) era inferiore ai limiti fissati dal codice della strada per guidare, la ketamina era 175 volte inferiore alla dose letale e l'eroina assunta non poteva essere significativa, stante lo stato di agitazione imputato ad Aldrovandi. Essendo la sintomatologia dell'abuso di oppiacei caratterizzata da uno stato di sedazione e torpore, la morte di Aldrovandi, correlata al suo stato di euforia ed agitazione, è logicamente incompatibile con una forte overdose di eroina.[6] Inoltre sia la perizia che i risultati delle indagini avrebbero evidenziato un contesto di gravi violenze subite dal giovane durante tutto l'intervento delle due pattuglie di Polizia. Nel frattempo la notorietà della storia aumentava sempre di più, grazie alla mobilitazione di associazioni, comitati, scuole e del consiglio comunale di Ferrara, arrivando fino alla partecipazione a trasmissioni televisive nazionali. Apertura dell'inchiesta Il 15 marzo 2006 arrivò la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati dei quattro agenti che avevano proceduto all'arresto di Aldrovandi per omicidio colposo. L'avviso di garanzia venne notificato loro il 6 aprile 2006. Il 16 giugno 2006 si tenne il primo incidente probatorio di fronte al giudice per le indagini preliminari, fra la famiglia della vittima, i quattro imputati ed una testimone oculare dell'accaduto, la camerunense Annie Marie Tsagueu. La Tsagueu, residente in viale Ippodromo, è l'unica testimone ad aver visto e sentito distintamente alcune fasi della collutazione. Ha visto gli agenti (due su quattro) picchiare Federico Aldrovandi, comprimerlo sull'asfalto e manganellarlo. Ha inoltre sentito le sue grida di aiuto e lo ha sentito respirare tra un conato di vomito e l'altro. Dall'incidente probatorio emersero tra le altre una lunga escoriazione alla natica sinistra, segno di trascinamento sull'asfalto, ed un importante schiacciamento dei testicoli. Nel frattempo venne disposta una perizia super-partes, con un incarico affidato all'"Istituto di Medicina Legale di Torino". Dalle indagini nel frattempo emergevano vari elementi incoerenti: come il fatto che il PM non fosse andato a compiere un sopralluogo sulla scena del decesso; che non fosse stata sequestrata l'automobile su cui, a detta degli agenti, si sarebbe ferito Aldrovandi; che non fossero stati sequestrati i manganelli, di cui due rotti, come confermato dall'onorevole Carlo Giovanardi in corso di interrogazione parlamentare;[8] ed infine che il nastro contenente le comunicazioni fra il 113 e la pattuglia fosse stato messo a disposizione della Procura soltanto molto tempo dopo. Per questi motivi venne aperta una seconda inchiesta presso la Procura di Ferrara, per vari reati, tra cui falso, omissione e mancata trasmissione di atti. L'11 novembre 2006 venne depositata la perizia eseguita a Torino, in cui veniva escluso categoricamente un nesso fra la morte e le sostanze psicotrope assunte da Aldrovandi, e secondo la quale la causa del decesso è da attribuirsi ad una morte improvvisa per insufficienza funzionale cardio-respiratoria, definita dagli autori anglosassoni come "excited delirium syndrome". Dalla discussione delle perizia, avvenuta il 14 dicembre 2006, emerse un ruolo attivo delle persone che erano con Aldrovandi. Il processo Il 10 gennaio 2007 venivano formalmente rinviati a giudizio, per omicidio colposo, gli agenti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri, per aver ecceduto i limiti dell'adempimento di un dovere, per aver procrastinato la violenza anche dopo aver vinto la resistenza del giovane e per aver ritardato l'intervento dell'ambulanza. Dopo le procedure di istruzione del processo la prima udienza preliminare venne fissata per l'ottobre 2007. All'inizio di febbraio 2008 viene mostrato un filmato di dieci minuti, girato dalla polizia scientifica sul luogo dell'evento, dopo la partenza dell'ambulanza e prima dell'arrivo del medico legale, in cui gli agenti presenti sul posto scambiano considerazioni sull'accaduto. Nel video emergerebbero preoccupanti divergenze con le foto scattate dal medico legale. Il 26 giugno 2007 vengono per la prima volta interrogati durante il processo i quattro imputati, i quali si dichiarano stupiti della morte della vittima, che "stava benissimo prima dell'arrivo dei sanitari", mentre la registrazione della centrale operativa riporta chiaramente: "... l'abbiamo bastonato di brutto. Adesso è svenuto, non so... È mezzo morto". Gli agenti raccontarono che i due sfollagente si sarebbero rotti per un calcio di Aldrovandi e per una caduta accidentale di un poliziotto. Sempre secondo la deposizione, l'ambulanza fu chiamata immediatamente, mentre non fu utilizzato il defibrillatore semi-automatico di cui era dotata la volante poiché Aldrovandi non aveva "mai dato segni di sofferenza". La segnalazione della Chiarelli Durante il processo la difesa sosterrà che la volante "Alfa 3" sarebbe giunta sul posto dopo la segnalazione di una residente, Cristina Chiarelli, preoccupata per il frastuono proveniente dal parco di viale Ippodromo. Fabio Anselmo, legale della famiglia Aldrovandi, sostiene invece che la suddetta pattuglia era già presente sul luogo e che le urla udite e segnalate dalla Chiarelli provenissero dallo scontro in corso tra Aldrovandi e i quattro poliziotti. Tale sequenza temporale è stata ipotizzata anche dal giudice in primo grado. Ulteriori perizie Il 10 ottobre 2008 i periti della difesa fornirono una versione opposta alle perizie di parte civile, ribadendo la rilevanza delle sostanze assunte dal giovane, in quantità sufficienti a causarne la morte, ed escludendo che la colluttazione o il mantenimento della posizione prona abbiano "avuto effetto nel processo che ha portato alla morte del ragazzo". Sommando gli effetti analgesici delle droghe si sarebbe compreso come il ragazzo avesse potuto ferirsi ripetutamente senza sentire dolore. L'agitazione psicomotoria "intensissima [...] ha innescato un meccanismo che ha portato a perdere il controllo del cervello e quindi a non rendersi conto del fabbisogno di ossigeno che il suo organismo richiedeva", cosa che sarebbe dipesa "dall'assunzione delle droghe, indipendentemente dalle quantità ingerite". Nemmeno il mettere la vittima in posizione seduta, conclusero i periti, le avrebbe salvato la vita, in assenza di una specifica terapia d'urgenza. Secondo una nuova perizia di parte civile del 6 novembre 2008 venne invece riportato che "alla base del cuore, lungo l’efflusso ventricolare sinistro, in particolare in corrispondenza del setto membranoso situato fra cuspide aortica non coronarica e coronarica destra, si osserva un cospicuo ematoma. Questa è la sede del fascio di His [...]. Il coinvolgimento del fascio di His da parte dell’ematoma è vistoso e con grande verosimiglianza è di origina traumatica [...] oppure ipossico da insufficienza respiratoria prolungata". La perizia conclude che "con probabilità molto elevata questa complicanza è stata la causa di morte". Il 9 gennaio 2009 il perito di parte venne sentito in udienza, il quale concluse affermando la morte per causa violenta di Aldrovandi. Sentenze Primo grado Il 19 giugno 2009, il pubblico ministero titolare del caso ha pronunciato una requisitoria in cui ha chiesto 3 anni e 8 mesi per i poliziotti implicati: Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Pollastri. Il 6 luglio 2009 il giudice Francesco Maria Caruso del tribunale di Ferrara ha condannato per omicidio colposo a tre anni e sei mesi di reclusione i quattro poliziotti indagati, riconoscendo l'eccesso colposo nell'uso legittimo delle armi. I quattro condannati, grazie all'indulto varato nel 2006, non sconteranno la loro pena. Corte d'Appello Il 9 ottobre 2010 viene stabilito, a favore dei familiari di Federico Aldrovandi, un risarcimento pari a circa due milioni di euro, in cambio dell'impegno a non costituirsi parte civile nei procedimenti ancora aperti. Il 10 giugno 2011 la Corte d'Appello di Bologna ha confermato la pena sancita in primo grado dal tribunale di Ferrara per la morte di Federico Aldrovandi, accogliendo in questo modo le richieste della PG e respingendo in toto le tesi difensive.[18] Corte di cassazione e condanna definitiva Il 21 giugno 2012 la corte di cassazione ha reso definitiva la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione per "eccesso colposo in omicidio colposo" ai quattro poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. In particolare la quarta sezione penale ha respinto il ricorso presentato dalla difesa dei quattro agenti contro la condanna che era già stata emessa dalla Corte d'Appello di Bologna. I poliziotti però beneficiano dell'indulto, che copre 36 dei 43 mesi di carcerazione previsti dalla condanna. In ogni caso, dopo l'attuazione di quest'ultima, scattano i provvedimenti disciplinari. Per Amnesty International si è trattato di "un lungo e tormentato percorso di ricerca della verità e della giustizia. Solidarietà e vicinanza ai familiari di Federico Aldrovandi, che in questi anni hanno dovuto fronteggiare assenza di collaborazione da parte delle istituzioni italiane e depistaggi dell'inchiesta". In cassazione i famigliari di Federico Aldrovandi non si sono costituiti parte civile dopo aver raggiunto una transazione con il Ministero dell'Interno e dopo aver ricevuto le scuse del capo della polizia Antonio Manganelli che ha incontrato i genitori del giovane durante una visita privata. Decorso Il 29 gennaio 2013 il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha decretato il carcere per la pena residua di 6 mesi (dato che 3 anni erano stati condonati dall'indulto) nei confronti dei poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto e Luca Pollastri. Il provvedimento del Tribunale giunge dopo la richiesta avanzata dal Procuratore Generale[23]. Il 1 marzo 2013 viene respinta l'istanza della difesa del quarto poliziotto, Enzo Pontani, e dunque anche quest'ultimo viene condannato in via definitiva e sconterà la pena detentiva. Il 18 marzo 2013 Monica Segatto, l'unica donna del gruppo, viene scarcerata sulla base del decreto Severino (lo "svuota-carceri") dopo un mese di detenzione e ammessa al regime degli arresti domiciliari. Anche Paolo Forlani e Luca Pollastri avevano avanzato la richiesta di poter accedere alla misura meno afflittiva dei domiciliari, sempre appellandosi allo svuota-carceri; questa volta però il magistrato di sorveglianza ha respinto la domanda, confermando il carcere per i due agenti. Gli uomini, insieme a Enzo Pontani, dovranno quindi scontare il resto della pena presso il penitenziario di Ferrara, in regime di isolamento. Reazioni alle sentenze Il 27 marzo 2013 il COISP, sindacato indipendente di polizia, ha improvvisato una manifestazione di solidarietà verso i poliziotti condannati presidiando la zona antistante il municipio di Ferrara, dove lavora la madre di Federico Aldrovandi. La donna, prima ha comunicato su Facebook la notizia commentandola, in seguito, non vedendo reazioni da parte dei manifestanti ha deciso di scendere portandosi con sé l'immagine del figlio morto. I manifestanti, appena notata la presenza della donna, si sono voltati ed hanno lasciato la piazza. Ne seguirà una querela della donna ai danni del COISP.[28] Aldrovandi Bis Il 5 marzo 2010 tre poliziotti sono stati condannati nel processo Aldrovandi bis sui presunti depistaggi nelle indagini mentre un quarto è stato rinviato a giudizio. La decisione sui depistaggi conferma l'ipotesi accusatoria dell'intralcio alle indagini fin dal primo momento. Le condanne sono state per: Paolo Marino, dirigente dell'Upg all'epoca, a un anno di reclusione per omissione di atti d'ufficio, per aver indotto in errore il PM di turno, non facendola intervenire sul posto. Marcello Bulgarelli, responsabile della centrale operativa, a dieci mesi per omissione e favoreggiamento. Marco Pirani, ispettore di polizia giudiziaria, a otto mesi per non aver trasmesso, se non dopo diversi mesi, il brogliaccio degli interventi di quella mattina. Luca Casoni, il quarto poliziotto coinvolto, che non ha scelto il rito abbreviato, è sottoposto a processo a partire dal 21 aprile 2010. Il 27 gennaio 2011 viene assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché il fatto non sussiste e assolto dalle accuse di favoreggiamento e omissione d’atti ufficio perché il fatto non costituisce reato.

21 settembre, 2013

PROMEMORIA 21 settembre 1990 - Il giudice Rosario Livatino viene assassinato, a soli 38 anni, mentre percorre la statale Agrigento-Caltanissetta, in Sicilia

Il giudice Rosario Livatino viene assassinato, a soli 38 anni, mentre percorre la statale Agrigento-Caltanissetta, in Sicilia Rosario Livatino nacque a Canicattì nel 1952, figlio di un avvocato di nome Vincenzo Livatino e di Rosalia Corbo. Conseguita la maturità presso il liceo classico Ugo Foscolo, nel 1971 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Palermo presso la quale si laureò nel 1975 cum laude. Tra il 1977 ed il 1978 prestò servizio come vicedirettore in prova presso l'Ufficio del Registro di Agrigento. Sempre nel 1978, dopo essersi classificato tra i primi in graduatoria nel concorso per uditore giudiziario, entrò in magistratura presso il Tribunale di Caltanissetta. Nel 1979 diventò sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento e ricoprì la carica fino al 1989, quando assunse il ruolo di giudice a latere. Venne ucciso il 21 settembre del 1990 sulla SS 640 mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra[1]. Del delitto fu testimone oculare Pietro Nava, sulla base delle cui dichiarazioni furono individuati gli esecutori dell'omicidio. Nella sua attività si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli Siciliana ed aveva messo a segno numerosi colpi nei confronti della mafia, attraverso lo strumento della confisca dei beni. Non molti giorni dopo la scoperta di legami mafia-massoneria, l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo definì Il giudice ragazzino: « Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno...? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un'autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l'amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta. » Dopo la morte del magistrato, l'Espresso sviscerò molti retroscena della faccenda. Dodici anni dopo l'assassinio, in una lettera aperta pubblicata da Il Giornale di Sicilia (11/7/2002) ed indirizzata ai genitori del giudice, Cossiga smentì che quelle affermazioni dispregiative fossero riferite a Rosario Livatino[2]. Papa Giovanni Paolo II definì Rosario Livatino «martire della giustizia ed indirettamente della fede». La sua figura è ricordata nel film di Alessandro Di Robilant Il giudice ragazzino, uscito nel 1994. È invece del 1992 il libro omonimo, scritto da Nando dalla Chiesa. Nel 2006 è stato realizzato il film-documentario La luce verticale per promuovere la causa di beatificazione di Rosario Livatino.

19 settembre, 2013

PROMEMORIA 19 settembre 1952 – Gli USA vietano il rientro a Charlie Chaplin cittadino britannico residente negli Usa, dopo un viaggio in Inghilterra

Gli USA vietano il rientro a Charlie Chaplin cittadino britannico residente negli Usa, dopo un viaggio in Inghilterra Sir Charles Spencer Chaplin, noto come Charlie Chaplin (Londra, 16 aprile 1889 – Corsier-sur-Vevey, 25 dicembre 1977), è stato un attore, regista, sceneggiatore, comico, compositore e produttore britannico, autore di oltre novanta film e tra i più importanti e influenti cineasti del XX secolo. Il personaggio attorno al quale costruì larga parte delle sue sceneggiature, e che gli diede fama universale, fu quello del "vagabondo" (The Tramp in inglese; Charlot in italiano, francese e spagnolo): un omino dalle raffinate maniere e la dignità di un gentiluomo, vestito di una stretta giacchetta, pantaloni e scarpe più grandi della sua misura, una bombetta e un bastone da passeggio in bambù; tipici del personaggio erano anche i baffetti e l'andatura ondeggiante. L'emotività sentimentale e il malinconico disincanto di fronte alla spietatezza e alle ingiustizie della società moderna, fecero di Charlot l'emblema dell'alienazione umana - in particolare delle classi sociali più emarginate - nell'era del progresso economico e industriale. Chaplin fu una delle personalità più creative e influenti del cinema muto. La sua vita lavorativa nel campo dello spettacolo ha attraversato oltre 75 anni. Fu influenzato dal comico francese Max Linder, a cui dedicò uno dei suoi film. Star mondiale del cinema, fu oggetto di adulazione e di critiche serrate, anche a causa delle sue idee politiche. Nei primi anni Cinquanta, durante il Maccartismo, la sua identificazione con la sinistra lo costrinse a stabilirsi in Europa. Tra gli attori più famosi dalla nascita dell'industria hollywoodiana, figura al decimo posto della classifica AFI dei 25 migliori attori di tutta la storia del cinema. Le sue simpatie politiche non furono da lui mai rivelate esplicitamente. Di certo, in molti suoi film aveva analizzato la realtà cupa dei lavoratori, dei poveri e degli emarginati (Tempi moderni, del 1936, ne può essere un chiaro esempio), ed aveva messo in piena luce le contraddizioni della società statunitense. Benché vivesse negli Stati Uniti da molti anni e vi pagasse le tasse, Chaplin non aveva mai chiesto la cittadinanza statunitense. Già all'uscita di Monsieur Verdoux venne pubblicamente accusato di "filocomunismo" e nel 1949 divenne uno dei bersagli del movimento innescato dal senatore Joseph McCarthy. Chaplin negò sempre, con veemenza. Disse anche che era stanco di rispondere sempre alla stessa domanda. Nel 1951 iniziò a girare quello che sarebbe stato il suo film d'addio: Luci della ribalta, tratto da un suo romanzo Footlights, mai pubblicato. Fu il suo ultimo film prodotto a Hollywood, e anche l'unico che interpretò assieme ad un altro mattatore del cinema muto: Buster Keaton. La condanna decisiva nei suoi confronti arrivò nel settembre del 1952. Chaplin e la sua nuova famiglia si erano imbarcati per l'Europa per quella che doveva essere una vacanza. Mentre si trovavano in mare il ministro della giustizia statunitense dispose per pubblico decreto che a Chaplin, in quanto cittadino britannico, non sarebbe stato permesso di rientrare nel paese a meno che non avesse convinto i funzionari dell'immigrazione di essere "idoneo"[15]. Avutane notizia, Chaplin decise di stabilirsi in Europa fissando la sua residenza in Svizzera. Nel 1957 Chaplin ritornò dietro la macchina da presa per girare di nuovo un film: Un re a New York. Fu il suo penultimo film, tra l'altro anche l'unico in cui recita assieme a suo figlio Michael. L'opera non ebbe successo e la sua vena cinematografica sembrò effettivamente appannata. Nel 1964, dopo circa un anno di lavoro, scrisse un'autobiografia (nella quale non vi è menzione del film Il circo, che probabilmente preferiva non ricordare per le tristi circostanze nelle quali fu girato). Nel 1966 si calò per l'ultima volta nei panni di regista, per girare La contessa di Hong Kong: fu il suo ultimo film, nonché l'unico a colori, nel quale lavorò assieme a due star del cinema mondiale: Marlon Brando e Sophia Loren. Grazie alla sua genialità di compositore, proprio in quegli anni produsse la versione sonora di alcuni suoi capolavori: Il circo nel 1969, Il monello nel 1971, e infine nel 1975 La donna di Parigi. Nel 1972, riconciliatosi con l'opinione pubblica statunitense, ritornò negli Stati Uniti per ritirare il suo secondo premio Oscar, questa volta alla carriera, assegnatogli per "aver fatto delle immagini in movimento una forma d'arte del Ventesimo secolo". In tale occasione fu protagonista della più lunga ovazione nella storia dell'Academy Awards. L'anno successivo vinse il Premio Oscar alla migliore colonna sonora per il film Luci della ribalta. Il 4 marzo 1975, dopo molti anni di esilio volontario dal suo Paese d'origine, Chaplin fu nominato Cavaliere di Sua Maestà dalla regina Elisabetta II d'Inghilterra. L'onorificenza era già stata proposta nel 1956, ma - in piena guerra fredda - non era stata concessa per il veto imposto dal Foreign Office britannico sempre a causa delle presunte "simpatie comuniste" di Chaplin.

16 settembre, 2013

PROMEMORIA 16 settembre 1982 – Massacro di Sabra e Shatila

Massacro di Sabra e Shatila Sabra e Shatila (talora trascritto Chatila, in arabo: صبرا وشاتيلا, Ṣabrā e Shātīlā) sono due campi di rifugiati palestinesi alla periferia di Beirut (Libano). Vengono ricordati per il massacro di un numero di arabi palestinesi stimato tra diverse centinaia e 3500, perpetrato da milizie cristiane libanesi in un'area direttamente controllata dall'esercito israeliano, tra il 16 e 18 settembre del 1982. Sono anche ricordati per successivi fatti di sangue avvenuti nel 1985–1987 e noti come guerra dei campi.

15 settembre, 2013

PROMEMORIA 15 SETTEMBRE 1993 – A Palermo, nel quartiere Brancaccio, un commando di Cosa Nostra capitanato da Salvatore Grigoli, detto U Cacciatori, uccide don Giuseppe Puglisi in piazza Anita Garibaldi, davanti al portone della sua casa

A Palermo, nel quartiere Brancaccio, un commando di Cosa Nostra capitanato da Salvatore Grigoli, detto U Cacciatori, uccide don Giuseppe Puglisi in piazza Anita Garibaldi, davanti al portone della sua casa Don Giuseppe Puglisi, meglio conosciuto come padre Pino Puglisi (Palermo, 15 settembre 1937 – Palermo, 15 settembre 1993), è stato un presbitero italiano, ucciso da Cosa nostra il giorno del suo 56º compleanno a motivo del suo costante impegno evangelico e sociale. Il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico di Palermo, davanti ad una folla di circa centomila fedeli, è stato proclamato beato. La celebrazione è stata presieduta dall'arcivescovo di Palermo, cardinale Paolo Romeo, mentre a leggere la lettera apostolica, con cui si compie il rito della beatificazione, è stato il cardinale Salvatore De Giorgi, delegato da papa Francesco. È il primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia.

Fermenti mensile d'informazione settembre 2013

Fermenti mensile d'informazione settembre 2013

01 settembre, 2013

Primo settembre 2004 – A Beslan (Ossezia Settentrionale-Alania, Russia) dei terroristi ceceni armati prendono in ostaggio centinaia di bambini e adulti nella scuola elementare della città.

A Beslan (Ossezia Settentrionale-Alania, Russia) dei terroristi ceceni armati prendono in ostaggio centinaia di bambini e adulti nella scuola elementare della città. Strage di Beslan è il termine con cui ci si riferisce al massacro avvenuto fra il 1º e il 3 settembre 2004 nella scuola Numero 1 di Beslan, nell'Ossezia del Nord, una repubblica autonoma nella regione del Caucaso nella federazione russa, dove un gruppo di 32 ribelli fondamentalisti islamici e separatisti ceceni[1] occupò l'edificio scolastico sequestrando circa 1200 persone fra adulti e bambini. Tre giorni dopo, quando le forze speciali russe fecero irruzione, fu l'inizio di un massacro che causò la morte di centinaia di persone, fra le quali 186 bambini, ed oltre 700 feriti Primo giorno[modifica | modifica sorgente] L'attacco iniziale ebbe luogo il 1º settembre 2004, il primo giorno dell'anno scolastico in Russia, chiamato "Primo settembre" o "Giorno della conoscenza". I bambini, accompagnati dai genitori e spesso da altri parenti, presenziano ad una cerimonia di apertura ospitati dalla scuola. Secondo la tradizione, gli studenti del primo anno donano un fiore a quelli che accedono all'anno finale e vengono quindi accompagnati nelle loro classi dai ragazzi più anziani. Si pensa che i terroristi abbiano scelto questo giorno particolare per avere maggiore visibilità. La scuola, le immagini di alcuni bambini deceduti e un monumento in memoria delle vittime della strage di Beslan. La scuola Numero Uno (SNO) di Beslan, che sorgeva accanto al distretto di polizia, era una dei 7 istituti scolastici presenti nella cittadina, con 59 insegnanti, diverse persone dello staff e 900 studenti di età compresa fra 6 e 18 anni. La palestra, dove la maggior parte degli stimati 1200 ostaggi passò le 56 ore, era di recente costruzione e misurava 25 metri in lunghezza per 10 in larghezza. A causa della ricorrenza dell'apertura dell'anno scolastico, il numero di persone nella scuola al momento dell'irruzione era considerevolmente più alto rispetto ad un normale giorno scolastico. Molte famiglie quel giorno portarono i loro bambini alla cerimonia anche a causa della chiusura, a seguito di un problema nella fornitura di gas, del centro ricreativo locale. Presa degli ostaggi[modifica | modifica sorgente] Alle ore 09:30 locali[2], un commando di 32 persone armate, con il volto coperto da passamontagna e in alcuni casi dotate di cinture esplosive, giunse all'edificio utilizzando due mezzi di trasporto, un furgone precedentemente rubato alla polizia e un secondo furgone militare, prendendo d'assalto la scuola. Inizialmente, alcuni presenti scambiarono il gruppo di terroristi per un gruppo di forze speciali russe impegnate in una esercitazione militare.[3] I terroristi chiarirono immediatamente ai presenti la loro identità iniziando a sparare in aria e obbligando la gente presente all'esterno dell'istituto scolastico a dirigersi nella palestra. Durante il caos iniziale, 65 persone riuscirono a sfruttare la confusione per fuggire ed allertare così le autorità.[4] Dopo uno scambio a fuoco con la polizia locale e un civile armato ucciso (in seguito venne riportato che anche un terrorista fosse stato colpito[5]), il commando prese possesso dell'edificio scolastico con circa 1200 persone in ostaggio, le quali vennero ammassate nella palestra. Successivamente ritirarono a chiunque il telefono cellulare. Una delle donne facente parte del gruppo di sequestratori minacciò gli ostaggi avvisandoli che se avesse trovato qualcuno nascondere un telefono, avrebbe ucciso quella persona e altre tre con lui.[6] Il commando di separatisti ceceni urlò quindi delle regole: nessuno doveva parlare se non chiamato a farlo e tutti dovevano parlare in russo. Un padre di famiglia, Ruslan Betrozov, fu incaricato di calmare le persone più agitate e di ripetere le regole nella lingua locale. Dopo aver radunato gli ostaggi in palestra, il commando separò e uccise da 15 a 22 degli adulti maschi presenti fra gli ostaggi.[7][8] Uno degli uomini, Aslan Kudzayev, riuscì a sopravvivere saltando dalla finestra. Il commando obbligò alcuni degli ostaggi a gettare alcuni corpi dalla finestra in segno di dimostrazione verso la polizia e scelse alcuni bambini per ripulire il sangue dal pavimento. Inizio dell'assedio[modifica | modifica sorgente] Disposizione iniziale delle forze di polizia russe Un cordone di sicurezza fu immediatamente posizionato intorno alla scuola, costituito da agenti dell'esercito russo, unità Vympel, membri delle forze Omon, i gruppi Alpha. Ben poche ambulanze invece erano presenti sul luogo dell'assedio. Il governo russo inizialmente minimizzò il numero degli ostaggi, affermando ripetutamente che all'interno della scuola fossero presenti soltanto 354 persone. Questo fece infuriare parte del commando, che di conseguenza maltrattò gli ostaggi.[9][10] I sequestratori minarono la palestra e il resto dell'edificio con congegni esplosivi improvvisati. Successivamente dimostrazioni atte a scoraggiare qualsiasi tentativo di intervento della polizia videro il commando minacciare di uccidere 50 ostaggi per ogni loro membro ucciso dalla polizia e di uccidere 20 ostaggi per ogni loro compagno ferito. Minacciarono inoltre di far esplodere l'intera struttura scolastica se il governo russo avesse forzato il blitz della polizia. Karen Mdinaradze, il cameraman della squadra di calcio russa dell'Alania, sopravvisse a una misteriosa esplosione nella quale perse un occhio.[11] Apparentemente, una delle donne del commando fece detonare accidentalmente la cintura esplosiva che indossava, uccidendo altri due membri del commando e diversi ostaggi adulti. Secondo un'altra versione invece, l'esplosione fu causata dal leader del gruppo, Ruslan Tagirovich Khuchbarov, che gestiva a distanza le cinture esplosive indossate dai suoi complici, in modo da poter uccidere i membri del suo commando che avessero disobbedito o che avessero mostrato di non essere in sintonia con le sue decisioni o, ancora, per intimidire altri possibili dissidenti. Il governo russo inizialmente affermò che non avrebbe utilizzato la forza per salvare gli ostaggi e le trattative per una pacifica risoluzione della crisi si protrassero infatti per oltre due giorni, dirette da Leonid Roshal, un pediatra che gli assalitori chiesero facesse da mediatore. Leonid Roshal aiutò le trattative per il rilascio dei bambini durante la crisi del teatro Dubrovka a Mosca nell'ottobre del 2002. Secondo alcuni però, le autorità russe lo confusero con Vladimir Rushailo, un ufficiale russo. Secondo giorno Il 2 settembre, le trattative fra Roshal e i separatisti si dimostrarono un insuccesso. Gli stessi terroristi rifiutano di consentire agli ostaggi di assumere cibo, acqua e medicine[14] e la loro mancanza iniziò a lasciare i segni più visibili inizialmente sui bambini, molti dei quali obbligati per lunghi periodi a rimanere seduti ammassati in una palestra nella quale la temperatura iniziava a toccare soglie insopportabili. Per far fronte a ciò, occasionalmente alcuni membri del commando versavano acqua sulla testa dei bambini che mostravano segni di perdita di conoscenza, riportandoli poi al loro posto. Alcuni ostaggi furono costretti a bere urina. A molti di loro fu permesso di togliersi i vestiti per far fronte al caldo insopportabile. Questo fu anche fonte di diverse speculazioni riguardo ad abusi sessuali, poi smentiti da alcuni degli ostaggi che sostennero fosse semplicemente una conseguenza del caldo. Secondo altri, invece, gli abusi sessuali non mancarono; Kazbek Dzarasov, uno dei sopravvissuti, sostenne che alcuni militanti del commando avrebbero preso alcune delle adolescenti più carine presenti nella palestra per portarle in stanze diverse con la scusa di garantire loro dell'acqua, per poi violentarle e tornare diverse ore dopo. Nel pomeriggio, il commando acconsentì di rilasciare 26 persone (11 donne e relativi figli) a seguito delle trattative avute con il presidente della Repubblica di Inguscezia Ruslan Aushev. Attorno alle 15:30 due granate esplosero circa 10 minuti dopo che gli ostaggi liberati vennero presi in consegna dalle autorità, facendo incendiare una macchina della polizia. Le forze speciali russe non risposero al fuoco. Con il passare del giorno e della notte, l'insieme dello stress e della mancanza di sonno, (e, per alcuni, della mancata assunzione di stupefacenti) contribuì a rendere i terroristi imprevedibili e isterici; perfino il pianto dei bambini li irritava e in diverse occasioni quest'ultimi e le loro madri furono minacciati di morte. Secondo le autorità russe i sequestratori avrebbero ascoltato canzoni del gruppo Industrial metal tedesco Rammstein su uno stereo personale durante l'assedio per mantenersi attivi e carichi. Terzo giorno Attorno alle 13:04 del 3 settembre, i terroristi decisero di permettere a quattro medici l'ingresso nell'istituto scolastico per rimuovere i corpi dei deceduti. Non appena i medici si avvicinarono alla scuola, i terroristi aprirono il fuoco e due esplosioni, sulle quali esistono diverse versioni, furono udite nella palestra. Due dei medici rimasero uccisi mentre gli altri riuscirono a ripararsi. Parte del muro della palestra venne demolito dall'esplosione, permettendo così a un gruppo di 30 ostaggi di fuggire, un buon numero dei quali perse la vita a causa dello scambio di fuoco fra gli agenti russi e i sequestratori. Yuri Ivanov, un altro investigatore, asserì in seguito che le granate furono lanciate su preciso ordine del presidente Putin. Versioni degli eventi iniziali Secondo alcuni la causa della sparatoria fu una esplosione spontanea che abbatté parte del muro della palestra. Secondo uno degli ostaggi fuggiti invece, una delle bombe fissata con del nastro adesivo era caduta causando l'esplosione. Ruslan Aushev, uno degli uomini chiave delle trattative durante l'assedio asserì ad un giornale locale che un'esplosione iniziale fu scatenata da uno dei sequestratori che accidentalmente calpestò uno dei fili di innesco. Come conseguenza, alcuni civili armati, apparentemente fratelli di alcuni ostaggi, iniziarono a sparare. Questo fece credere ai terroristi che le forze speciali avessero dato il via al blitz, al quale risposero facendo seguire altre esplosioni. Una terza versione è che le forze speciali colpirono uno dei sequestratori il quale aveva il piede in prossimità di un detonatore. Questo avrebbe causato le esplosioni. Una quarta versione fornita da un esperto di armi ed esplosivi sostiene che lo scambio di fuoco non iniziò con l'esplosione nella palestra, ma fu causato da due granate lanciate dalle forze speciali russe all'interno dell'edificio e che gli esplosivi artigianali creati dai terroristi non siano mai realmente esplosi. In una quinta versione, Alexander Torshi, membro di una commissione parlamentare russa sostenne che i terroristi avessero iniziato la battaglia facendo detonare intenzionalmente le bombe fra gli ostaggi. L'assalto delle forze speciali non era stato pianificato[26] Dopo circa due ore l'edificio è sotto il controllo delle forze speciali, gli scontri continuano all'esterno. Alcuni ribelli, infatti, sono riusciti a scappare sfruttando la confusione dell'assalto e cambiandosi i vestiti con ostaggi o soccorritori[27][28]. La polizia li insegue con gli elicotteri. Due donne, vestite di nero ed imbottite di esplosivi, hanno cercato di inseguire alcuni bambini in fuga e farsi saltare in aria con loro, senza riuscire nel loro intento. Conseguenze Alexander Fridinsky, un ufficiale russo affermò che 31 dei 32 sequestratori fossero stati uccisi e che Nur-Pashi Kulayev fosse stato catturato vivo. Almeno due sequestratori rimasti feriti furono linciati dai genitori dei bambini. Le autorità si trovarono impreparate a fronteggiare il fuoco che divampò nella palestra. Un vecchio furgone dei vigili del fuoco locali arrivò quasi due ore dopo lo scoppio dell'incendio e, secondo alcune testimonianze, senza acqua. Poche erano le ambulanze disponibili sul posto per trasportare le centinaia di feriti. Molti dei sopravvissuti rimasero sotto shock e molti feriti morirono all'ospedale. Almeno una donna sopravvissuta si suicidò una volta fatto ritorno a casa. Il governo russo fu duramente criticato da molte persone del posto che, alcuni giorni dopo la fine dell'assedio, non sapevano se i loro figli fossero vivi o morti. Resti umani furono ritrovati in zona mesi successivi alla strage, incitando successivo sdegno. Durante i combattimenti, 11 soldati delle forze speciali furono uccisi, fra cui il comandante del gruppo Alpha, e più di 30 soldati rimasero feriti, più o meno gravemente. Il presidente russo Vladimir Putin ordinò un periodo di due giorni di lutto nazionale per il 6 e il 7 settembre, cancellando un incontro precedentemente pianificato con l'allora cancelliere tedesco Gerhard Schröder ad Amburgo e nello Stato federale di Schleswig-Holstein. Vittime Morti ufficiali Ostaggi 334 Polizia e civili 8 Soccorritori 2 Forze speciali 11 Sequestratori 31 Totale 386 - Feriti stimati Forze speciali 30 Altri 700 Totale 730 Nella scuola sono state prese in ostaggio 1127 persone le quali sono state private di cibo ed acqua. Le vittime fra gli ostaggi furono inizialmente 331, di queste 186 erano bambini. A causa delle ferite riportate durante la prigionia, altri due ex-ostaggi sono morti nel 2005, ed un altro nell'agosto del 2006, portando il computo totale a 334 morti. Inoltre ci furono 11 morti fra la polizia russa e 31 fra i sequestratori. Circa 800 persone sono sopravvissute al sequestro, molti dei quali sono rimasti mutilati ed alcuni bambini orfani. Il primo dei molti funerali fu celebrato il 4 settembre, il giorno successivo la fine della crisi, e molti altri la domenica successiva. Il lunedì seguente vennero sepolte oltre 120 persone. Il cimitero locale era troppo piccolo per ospitare tutte le persone decedute e fu quindi allargato utilizzando un appezzamento di terra adiacente. L'esatto numero di persone che ricevette assistenza ambulatoriale immediatamente dopo la strage non è conosciuto, ma è stimato attorno a 700. Un analista militare moscovita, Pavel Felgenhauer, in una colonna del Moscow Times il 7 settembre 2004 concluse che il 90% delle persone prese in ostaggio rimase in qualche modo ferita. 437 persone, inclusi 221 bambini, subirono dei ricoveri ospedalieri. 197 persone furono ospitate al Children's Republican Clinical Hospital a Vladikavkaz, la capitale dell'Ossezia del Nord, e ad oltre una trentina in condizioni critiche fu effettuato un massaggio cardiaco. Altre 150 persone furono trasferite al Vladikavkaz Emergency Hospital. 62 persone, inclusi 12 bambini, furono curati in due ospedali locali di Beslan. Sei bambini con ferite gravi furono invece trasferiti via aerea a Mosca per ricevere trattamenti specialistici. La maggioranza dei bambini furono curati per ustioni, colpi d'arma da fuoco, ferite da detriti e mutilazioni causate da mine e bombe. Alcuni dovettero subire amputazioni di arti o occhi. Molti bambini rimasero permanentemente disabili a seguito delle ferite subite.[35]. L'enormità di feriti mise a dura prova l'intera macchina sanitaria locale con un'inadeguata disponibilità di bende e medicazioni. Un mese dopo l'attacco, 240 persone (di cui 160 bambini) erano ancora ricoverati negli ospedali di Beslan e Vladikavkaz. I bambini e i genitori sopravvissuti ricevettero assistenza psicologica al Vladikavkaz Rehabilitation Centre.