31 gennaio, 2014

PROMEMORIA 31 gennaio 1776 Alessandro Volta studiò il fenomeno del metano

31 gennaio Nell'autunno del 1776 Alessandro Volta studiò il fenomeno del metano Nell'autunno del 1776 Alessandro Volta studiò un fenomeno noto anche in epoche più lontane, segnalatogli da Carlo Giuseppe Campi: in un'ansa stagnante del fiume Lambro, avvicinando una fiamma alla superficie si accendevano delle fiammelle azzurrine. Questo fenomeno era già stato studiato separatamente da Pringle, Lavoisier, Franklin e Priestley pochi anni prima ma lo classificarono semplicemente come un'esalazione di aria infiammabile, di origine minerale. Volta volle andare più a fondo della questione. Mentre era ospite ad Angera nella casa dell'amica Teresa Castiglioni (Angera 1750 - Como 1821), Alessandro Volta scoprì l'aria infiammabile nella palude dell'isolino Partegora, in località Bruschera. Provando a smuovere il fondo con l'aiuto di un bastone vide che risalivano delle bolle di gas e le raccolse in bottiglie. Diede a questo gas il nome di aria infiammabile di palude e scoprì che poteva essere incendiato sia per mezzo di una candela accesa sia mediante una scarica elettrica; dedusse che il gas si formava nella decomposizione di sostanze animali e vegetali[3]. Pensando immediatamente a un suo utilizzo pratico costruì dapprima una pistola elettroflogopneumatica in legno, metallo e vetro, il cui scopo sarebbe stato la trasmissione di un segnale a distanza, e in seguito realizzò una lucerna ad aria infiammabile e perfezionò l'eudiometro per la misura e l'analisi dei gas. Per ulteriore conferma della sua tesi, si recò nel 1780 a Pietramala, sull'Appennino toscano, dove vi erano dei celebri fuochi fatui. La corretta composizione del gas fu determinata da Thomas Henry nel 1805.

19 gennaio, 2014

PROMEMORIA 19 gennaio 1969 – Muore lo studente Jan Palach, dopo essersi dato fuoco 3 giorni prima nella Piazza San Venceslao di Praga, per protesta contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia avvenuta nel 1968. Il suo funerale si trasformerà in un'altra grande manifestazione

Muore lo studente Jan Palach, dopo essersi dato fuoco 3 giorni prima nella Piazza San Venceslao di Praga, per protesta contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia avvenuta nel 1968. Il suo funerale si trasformerà in un'altra grande manifestazione Iscritto alla Facoltà di filosofia dell'Università Carlo di Praga, assistette con interesse alla stagione riformista del suo paese, chiamata Primavera di Praga. Nel giro di pochi mesi, però, quest'esperienza fu repressa militarmente dalle truppe dell'Unione Sovietica e degli altri paesi che aderivano al Patto di Varsavia[1]. Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan Palach si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Rimase lucido durante i tre giorni di agonia. Ai medici disse d'aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam[2] tra i quali il caso di Thích Quảng Đức fu quello che attirò l'attenzione mondiale. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono 600 000 persone, provenienti da tutto il Paese. Jan Palach decise di non bruciare i suoi appunti e i suoi articoli (che rappresentavano i suoi pensieri e i suoi ideali), che tenne in un sacco a tracolla molto distante dalle fiamme. Tra le dichiarazioni trovate nei suoi quaderni, spicca questa: « Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy[3]. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà » Non si è mai saputo se davvero ci fosse un'organizzazione come quella descritta da Palach nella sua lettera[2]. È certo però che, grazie a questo gesto estremo, Palach venne considerato dagli antisovietici come un eroe e martire; in città e paesi di molte nazioni furono intitolate strade con il suo nome. Anche il teologo cattolico Zverina lo difese, affermando che "Un suicida in certi casi non scende all'Inferno" e che "non sempre Dio è dispiaciuto quando un uomo si toglie il suo bene supremo, la vita"[4]. Questo clima portò a drammatiche conseguenze: almeno altri sette studenti, tra cui l'amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio e si tolsero la vita, nel silenzio degli organi d'informazione, controllati dalle forze d'invasione.

13 gennaio, 2014

PROMEMORIA 13 gennaio 2012 – La nave da crociera Costa Concordia urta degli scogli a 500 metri dal porto dell'Isola del Giglio, provocando uno squarcio di 70 metri nello scafo e causando 30 morti, 80 feriti e 2 dispersi, con la conseguenza dell'evacuazione totale delle 4229 persone a bordo della nave tra equipaggio e passeggeri.

La nave da crociera Costa Concordia urta degli scogli a 500 metri dal porto dell'Isola del Giglio, provocando uno squarcio di 70 metri nello scafo e causando 30 morti, 80 feriti e 2 dispersi, con la conseguenza dell'evacuazione totale delle 4229 persone a bordo della nave tra equipaggio e passeggeri. Il naufragio della Costa Concordia è stato un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. Salpata dal porto di Civitavecchia per la prima tappa della crociera "Profumo d'agrumi" nel Mediterraneo, con 4 229 persone a bordo (3 216 passeggeri e 1 013 membri dell'equipaggio), avrebbe dovuto successivamente toccare i porti di Savona, Marsiglia, Barcellona, Palma di Maiorca, Cagliari, Palermo, per poi far ritorno a Civitavecchia. Nelle acque dell'Isola del Giglio ha urtato uno scoglio riportando l'apertura di una falla lunga circa 70 metri sul lato sinistro dell'opera viva. L'impatto ha provocato la brusca interruzione della crociera, un forte sbandamento e il conseguente arenamento sullo scalino roccioso del basso fondale prospiciente Punta Gabbianara, a nord di Giglio Porto. L'incidente ha provocato 32 morti. È la nave passeggeri di maggior tonnellaggio mai naufragata della storia.

07 gennaio, 2014

PROMEMORIA 7 gennaio 1797 – Italia: il tricolore italiano viene adottato per la prima volta da uno stato (la Repubblica Cispadana)

Italia: il tricolore italiano viene adottato per la prima volta da uno stato (la Repubblica Cispadana) La bandiera italiana è il Tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni, così definita dall'articolo 12 della Costituzione della Repubblica Italiana del 27 dicembre 1947, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana nº 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947. Il 7 gennaio di ogni anno la bandiera italiana è protagonista della giornata nazionale della bandiera, istituita dalla legge nº 671 del 31 dicembre 1996. Come per l'intero processo risorgimentale, anche l'origine della bandiera italiana è da ricercarsi nella Rivoluzione francese: con la presa della Bastiglia, i rivoluzionari scelsero il blu, il bianco e il rosso come loro colori-simbolo (blu e rosso sono i colori di Parigi, il bianco centrale è il colore della famiglia reale dei Borbone, prima ben vista dal popolo), e quando poi, attraverso le campagne di Napoleone, la Rivoluzione "contagiò" l'Europa intera, anche in Italia arrivarono questi tre colori. Al tempo il popolo italiano non teneva molto in considerazione la bandiera: essa era solo il simbolo della dinastia regnante in quel momento, al massimo aveva una funzione militare, ma non era emblema del sentimento patriottico del popolo, al contrario di quanto avveniva per i francesi, e per questo non conosciamo bene le dinamiche precise che portarono alla sostituzione del blu col verde. Fu proprio in quegli anni che la bandiera assunse per gli italiani quel significato che ha ancora oggi: dopo la Restaurazione, infatti, chiunque venisse visto in giro con addosso coccarde o altri simboli tricolori era additato come un pericoloso rivoluzionario, così il bianco e il rosso divennero i simboli della rivoluzione intesa come sovranità per il popolo e libertà per la nazione. Il verde invece era il colore della speranza, della fiducia in un'Italia migliore.[senza fonte] Inoltre era il colore delle uniformi della Guardia Civica milanese, ed essendo stato adottato dai miliziani italiani che combattevano al fianco di Napoleone, andò a rappresentare tutti coloro che hanno combattuto per la libertà dell'Italia. Inoltre per la Massoneria il verde era il colore della natura, quindi simboleggiava tanto i diritti naturali dell'uomo quanto il verde e florido paesaggio naturale italiano (questa interpretazione è tuttavia osteggiata da chi sostiene che la Massoneria, in quanto società segreta, non avesse abbastanza influenza sulla società per ispirare i colori nazionali). Questi divennero presto i simboli di una rivolta che animava e univa ormai tutta l'Italia: il Risorgimento. Ad essi si aggiunse l'azzurro, colore distintivo della famiglia Savoia, inserito nella bandiera del Regno d'Italia sul contorno dello stemma per evitare che la croce e il campo dello scudo si confondessero con il bianco e il rosso delle bande del vessillo; da allora è uno dei colori di riferimento e riconoscimento dell'Italia, ad esempio per le maglie sportive nazionali, pur non comparendo più nella bandiera della Repubblica Italiana. Dopo la Seconda guerra mondiale, come recita l'articolo 12 della Costituzione, il bianco, il rosso e il verde vennero disposti sulla bandiera italiana a tre bande verticali di eguali dimensioni ispirandosi al modello della bandiera della Francia, per ribadire ancora una volta gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità.

05 gennaio, 2014

PROMEMORIA 5 gennaio 1968 – Alexander Dubček sale al potere, in Cecoslovacchia comincia la Primavera di Praga

Alexander Dubček sale al potere, in Cecoslovacchia comincia la Primavera di Praga Nato in un paesino della Slovacchia, all'età di quattro anni si trasferì con tutta la sua famiglia in Unione Sovietica. Rientrato in Cecoslovacchia nel 1939, lavorò come operaio e aderì al movimento comunista clandestino, prendendo parte alla resistenza antinazista e all'insurrezione slovacca nel 1944. Nel 1951 diventò deputato dell'Assemblea nazionale e nel 1963 segretario del Partito Comunista Slovacco (che con quello di Boemia e Moravia formava il Partito Comunista Cecoslovacco, PCC). Convinto della necessità di abbandonare il modello sovietico, Dubček riunì intorno a sé un folto gruppo di politici e intellettuali riformatori, diventando il maggiore interprete di una linea antiautoritaria – definita "socialismo dal volto umano" – e di una feconda stagione politica: la Primavera di Praga. Il 5 gennaio del 1968 venne eletto segretario generale del PCC al posto di Antonín Novotný, leader della componente più legata al Partito comunista sovietico, dando avvio al cosiddetto "nuovo corso", una strategia politica volta a introdurre elementi di democrazia in tutti i settori della società, fermo restando il ruolo dominante del partito unico. Il consenso popolare ottenuto dall'azione riformatrice di Dubček suscitò ben presto la reazione di Mosca e degli altri regimi comunisti est-europei, che, infine, si risolsero a porre fine all'eterodossa esperienza praghese ordinando, nell'agosto del 1968, l'intervento delle truppe del Patto di Varsavia. In conseguenza dell'intervento, egli fu arrestato dalle forze speciali a seguito delle truppe d'occupazione sovietica e trasportato assieme ai suoi principali collaboratori e ai più eminenti rappresentanti del nuovo corso a Mosca, dove fu costretto a siglare un protocollo d'intesa con il Cremlino che vincolava il suo ritorno alla guida del Partito con la "normalizzazione" della situazione politica nel paese. Nonostante questo, l'opposizione popolare al regime d'occupazione consentì a Dubček di mantenere una certa autonomia dal Cremlino, tanto che in seguito ai suoi tentennamenti di fronte alle proteste anti-sovietiche della primavera successiva, egli venne rimosso dal suo incarico per poi essere espulso dal PCC nel 1970. Quell'anno tornò in Slovacchia, dove trovò impiego come manovale in un'azienda forestale. Tornò alla vita pubblica nel 1989 quando il regime gli concesse di viaggiare in Italia per ricevere una laurea honoris causa a Bologna; nella stessa occasione rilascia anche un'intervista a L'Unità dopo anni di silenzio, in cui ribadisce le sue idee liberali. Nello stesso anno l'Unione Europea gli assegna il Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Acclamato durante la rivoluzione di velluto, dopo la caduta del regime comunista Dubček fu riabilitato ed eletto presidente del Parlamento federale cecoslovacco. In questa veste si batté, come il capo di Stato ceco Václav Havel, contro la divisione della Cecoslovacchia e compì l'ultimo suo atto politico, rifiutandosi di firmare la legge di "lustrazione" (legge 451/1991) sull'epurazione rivolta indifferentemente a tutte le persone compromesse con il precedente regime, nel timore che essa avrebbe creato nel paese un pericoloso clima di vendetta e colpito l'ala dissidente del Partito comunista repressa dopo il 1968, che recentemente si era riorganizzata nella formazione politica Obroda (Rinascita). Morì poco tempo dopo, il 7 novembre 1992, per le ferite riportate in un incidente autostradale avvenuto il 1º ottobre nei pressi di Humpolec. È sepolto al cimitero Slávičie údolie di Bratislava, capitale della Slovacchia.