20 settembre, 2010

PROMEMORIA 20 settembre 1870 La presa di Roma


La presa di Roma (20 settembre 1870) comportò l'annessione di Roma al Regno d'Italia, e decretò la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale dei Papi. L'anno successivo la capitale d'Italia fu trasferita da Firenze a Roma (legge 3 febbraio 1871, n. 33).

Le premesse

Il desiderio di porre Roma a capitale del nuovo regno d'Italia era già stata esplicitata da Cavour nel suo discorso al parlamento italiano nel 1860. Cavour prese poco dopo i contatti a Roma con Diomede Pantaleoni, un patriota romano, che aveva ampie conoscenze nell'ambiente ecclesiastico, per cercare una soluzione che assicurasse l'indipendenza del papa. Il principio era quello della "libertà assoluta della chiesa" cioè la libertà di coscienza, assicurando ai cattolici l'indipendenza del pontefice dal potere civile. Inizialmente si ebbe l'impressione che questa trattativa non dispiacesse completamente a Pio IX e al cardinale Giacomo Antonelli, ma questi dopo poco, già nei primi mesi del 1861, cambiarono atteggiamento e le trattative non ebbero seguito.
Poco dopo Cavour affermò in parlamento che riteneva «necessaria Roma all'Italia», e che prima o poi Roma sarebbe stata la capitale, ma che per far questo era necessario il consenso della Francia. Sperava che l'Europa tutta sarebbe stata convinta dell'importanza della separazione tra potere spirituale e potere temporale, e quindi riaffermò il principio di «libera Chiesa in libero Stato».[2]
Cavour già nell'aprile scrisse al principe Napoleone per convincere l'Imperatore a togliere da Roma il presidio francese che lì si trovava. Ricevette anche dal principe un abbozzo di convenzione:
« Fra l'Italia e la Francia, senza l'intervento della corte di Roma, si verrebbe a stipulare quanto segue:
1º La Francia, avendo messo il Santo Padre al coperto d'ogni intervento straniero, ritirerebbe da Roma le sue truppe, in uno spazio di tempo determinato, di 15 giorni o al più di un mese.
2º L'Italia prenderebbe impegno di non assalire ed eziandio di impedire in ogni modo a chicchessia, ogni aggressione contro il territorio rimasto in possesso del Santo Padre.
3º Il governo italiano s'interdirebbe qualunque reclamo contro l'organamento di un esercito pontificio, anche costituito di volontari cattolici stranieri, purché non oltrepassasse l'effettivo di 10 mila soldati, e non degenerasse in un mezzo di offesa a danno del regno d'Italia.

4° L'Italia si dichiarerebbe pronta ad entrare in trattative dirette con il governo romano, per prendere a suo carico la parte proporzionale che le spetterebbe nella passività degli antichi stati della chiesa »
(in Cadorna,La liberazione)
Il conte di Cavour vi acconsentiva in linea di massima, perché sperava che la stessa popolazione romana avrebbe risolto i problemi senza bisogno di repressioni da parte di governi stranieri, e che il Papa avrebbe infine ceduto alle spinte unitarie. Le uniche riserve espresse riguardavano la presenza di truppe straniere. La convenzione però non arrivò a conclusione per la morte di Cavour, il 6 giugno del 1861.
Bettino Ricasoli, successore di Cavour, cercò di riaprire i contatti con il cardinale Antonelli già il 10 settembre 1861, con una nota in cui faceva appello «alla mente ed al cuore del Santo Padre, perché colla sua sapienza e bontà, consenta ad un accordo che lasciando intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità e grandezza della chiesa».[2] Ancora una volta Antonelli e Pio IX si mostrarono contrari. L'ambasciatore francese a Roma scrisse al suo ministro che il cardinale gli aveva detto:
(FR)
« Quant à pactiser avec les spoliateurs, nous ne le ferons jamais. »
(IT)
« Quanto a fare accordi con gli espropriatori, noi non lo faremo mai »
(Card. Antonelli)
Da quel momento ci fu uno stallo nelle attività diplomatiche, mentre rimaneva viva la spinta all'azione di Garibaldi e dei mazziniani. Ci furono una serie di tentativi tra cui quello più noto si concluse all'Aspromonte.
Agli inizi del 1863, il governo Minghetti riprese le trattative con Napoleone III, ma dopo questi avvenimenti Napoleone pretese maggiori garanzie. Si arrivò quindi alla convenzione di settembre, un accordo con Napoleone che prevedeva il ritiro delle truppe francesi, in cambio di un impegno da parte dell'Italia a non invadere lo Stato Pontificio. A garanzia dell'impegno da parte italiana, la Francia chiese il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Entrambe le parti espressero comunque una serie di riserve, e l'Italia si riservava completa libertà d'azione nel caso che una rivoluzione scoppiasse a Roma, condizioni che furono accettate dalla Francia, che riconobbe in questo modo i diritti dell'Italia su Roma.
Nel 1867 ci furono i fatti di Mentana. Il 3 novembre i francesi sbarcarono a Civitavecchia e si unirono alle truppe pontificie scontrandosi con i garibaldini. Le truppe italiane, che in base alla convenzione avevano varcato i confini dello stato pontificio, lo abbandonarono; ma i soldati francesi, nonostante quanto previsto nella convenzione di settembre, rimasero a Roma e il ministro francese Eugène Rouher dichiarò al parlamento francese
(FR)
« que l'Italie peut faire sans Rome; nous déclarons qu'elle ne s'emparera jamais de cette ville. La France ne supportera jamais cette violence faite à son honneur et au catholicisme. »
(IT)
« che l'Italia può fare a meno di Roma; noi dichiariamo che non si impadronirà mai di questa città. La Francia non sopporterà mai questa violenza fatta al suo onore ed al cattolicesimo. »
(Rouher.)
In risposta, il 9 dicembre Giovanni Lanza, nel discorso di insediamento alla presidenza della camera dei deputati, dichiarò che «siamo unanimi a volere il compimento dell'unità nazionale; e Roma, tardi o tosto, per la necessità delle cose e per la ragione dei tempi, dovrà essere capitale d'Italia».
Alla fine del 1869 lo stesso Lanza, alla caduta del terzo gabinetto Menabrea, si insediò come nuovo capo del Governo. Nel frattempo continuava l'occupazione francese di Roma, "non rimanendo più traccia della oramai conculcata convenzione del 15 settembre 1864.
Il 14 luglio 1870 il governo di Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia.
L'occupazione di Roma fu una delle cause che impedì accordi di alleanza militare fra Francia e Italia. Girolamo Napoleone II in un discorso all'Assemblea Nazionale francese dichiarò il 24 novembre 1876 che la conservazione del potere temporale era costato alla Francia la perdita dell'Alsazia e della Lorena.[2] Il Papa lo stesso anno indisse a Roma un concilio ecumenico, che doveva anche risolvere il problema dell'infallibilità papale. Questa posizione destò preoccupazione per il timore che servisse al Papa per intromettersi negli affari politici.
Il 2 agosto la Francia, cercando di recuperare un rapporto amichevole con l'Italia, avvertì il governo italiano che era disponibile a ripristinare la convenzione del 1864 e a ritirare le truppe da Roma.
Il 20 agosto alla Camera ci furono interpellanze di vari deputati tra cui Cairoli e Nicotera che chiedevano di denunciare definitivamente la convenzione del 15 settembre e di muovere su Roma.[2] La risposta governativa ricordava che la convenzione escludeva i casi straordinari e proprio questa clausola aveva permesso a Napoleone III di intervenire a Mentana. Nel frattempo comunque i francesi abbandonarono Roma. Di nuovo si mosse la diplomazia italiana chiedendo una soluzione della questione romana. L'imperatrice Eugenia, che aveva in quel momento le funzioni di reggente, spedì la nave da guerra Orénoque a stazionare davanti a Civitavecchia. Ma le vicende della guerra franco-prussiana peggiorarono per i francesi, e Napoleone III cercò soccorsi in Italia che, visto lo stato dei rapporti, gli furono negati.[2]
Il 4 settembre 1870 cadeva il Secondo Impero, e in Francia veniva proclamata la Terza Repubblica. Questo stravolgimento aprì di fatto all'Italia la strada per Roma.

La preparazione diplomatica

Il 29 agosto 1870 il ministro degli affari esteri, il marchese Emilio Visconti Venosta inviò al ministro del Re a Parigi una lettera con cui espose i punti di vista del governo italiano da rappresentare al governo francese.
Visconti Venosta rileva come le condizioni che hanno a suo tempo portato alla convenzione di settembre tra Italia e Francia siano completamente cadute.
(FR)
« Florence, 29 août 1870.
Il Ministro degli Affari Esteri al Ministro del Re a Parigi
… Le but que le Gouvernement impérial poursuivait, celui de faciliter une conciliation entre le Saint-Père, les Romains et l'Italie, dans un sens conforme aux vues exprimées par l'Empereur dans sa lettre à M. de Thouvenel du 26 mai 1862, a été non seulement manqué, mais même complètement perdu par suite de circonstances sur lesquelles il serait inutile d'appuyer… »
(IT)
… L'obiettivo che il Governo imperiale ha perseguito, cioè di facilitare una conciliazione tra il Santo Padre, i Romani e l'Italia, conformemente ai punti di vista espressi dall'Imperatore nella sua lettera a M. de Thouvenel del 26 maggio 1862, è stato non solo mancato, ma è addiritura completamente fallito a causa di circostanze sulle quali è inutile insistere… »
(Visconti Venosta, in R. Cadorna, La liberazione di Roma, p. 331 )
Lo stesso giorno Visconti Venosta diramò a tutti i rappresentanti di Sua Maestà all'estero una lettera circolare con la quale si esponevano alle potenze europee le garanzie che venivano offerte al Pontefice a tutela della sua libertà; contemporaneamente si sottolineava l'urgenza di risolvere un problema che, secondo l'opinione del governo italiano, non poteva essere rimandato[3]. Il 7 settembre inviò un'altra lettera in cui le intenzioni del governo vengono nuovamente esplicitate e le motivazioni rafforzate.[4] L'8 settembre il ministro del Re a Monaco, il genovese Giovanni Antonio Migliorati, risponde a Visconti Venosta esponendo i risultati del colloquio con il conte di Bray: «Il Ministro degli Affari Esteri mi disse che le basi che porrebbe l'Italia alla Santa Sede ... gli sembrerebbero tali da dover essere accettate da Roma...».[4]
Simili considerazioni arrivano da Berna spedite da Luigi Melegari. Anche i rappresentanti a Vienna, a Karlsruhe, presso il governo del Baden e a Londra esprimono opinioni simili. L'unico governo che esita in qualche modo a prendere posizione è quello di Bismarck che si trova a Parigi assieme al suo re, che in questi giorni sta per essere incoronato imperatore. Solo il 20 settembre da Berlino esprime una posizione di stretta non ingerenza.[4] Jules Favre ministro del nuovo governo francese invia il 10 settembre all'incaricato di Francia a Roma un'indicazione in cui afferma che il governo francese «ne peut approuver ni reconnaître le pouvoir temporel du Saint-Siège».[4]
Il 20 agosto il cardinale Antonelli a sua volta aveva inviato una richiesta ai governi stranieri onde si opponessero «alla violenze dal governo sardo (sic!) minacciate». La maggior parte dei governi si limitò a non rispondere, altri invece espressero l'opinione che la cosa non li riguardava.

Preparativi militari

Il governo procedette alla costituzione di un Corpo d'osservazione dell'Italia centrale. In questo contesto furono chiamate sotto le armi anche le classi 1842-45. Il 10 agosto il ministro della guerra Giuseppe Govone convocò il generale Raffaele Cadorna cui assegnò il comando del corpo con le seguenti disposizioni:[5]
« 1° Mantenere inviolata la frontiera degli stati pontifici da qualunque tentativo d'irruzione di bande armate che tentassero di penetrarvi;
2° Mantenere l'ordine e reprimere ogni moto insurrezionale che fosse per manifestarsi nelle provincie occupate dalle divisioni poste sotto a' di Lei ordini;

3° Nel caso in cui moti insurrezionali avessero luogo negli stati pontifici, impedire che si estendano al di qua del confine. »
Il dispaccio concludeva con:
« La prudenza e l'energia altra volta da Lei dimostrata in non meno gravi circostanze[6], danno sicuro affidamento, che lo scopo che il governo si propone, sarà pienamente raggiunto. »
Oltre a Cadorna il governo nominò anche i comandanti delle tre divisioni che costituivano il corpo nelle persone dei generali Emilio Ferrero, Gustavo Mazè de la Roche e Nino Bixio. Cadorna sollevò subito i suoi dubbi sulla presenza di Bixio, che considerava troppo impetuoso e quindi inadatto ad una missione che «richiedeva somma prudenza». Govone, che si ritirerà pochi giorni dopo dal governo, accettò le opinioni di Cadorna e nominò al posto di Bixio il generale Cosenz.[5]
Alla fine di agosto le tre divisioni furono portate a cinque ed il comando di questi nuovi reparti fu affidato al generale Diego Angioletti e Bixio, che non riscuoteva le simpatie del comandante del Corpo. Il totale dei militari del Corpo arrivò a superare le 50.000 unità.
Il corpo pontificio era costituito da circa 15.000 militari di varie nazionalità. Circa 4.000 erano francesi, tra cui la legione di Antibes, forte di 1200 uomini, e circa 1.000 erano tedeschi. Vi erano inoltre 400 volontari pontifici. Con lo scoppio della guerra Franco-Prussiana parte dei militari francesi fu richiamata in patria. Il comandante era il generale Hermann Kanzler (badese), coadiuvato dai generali De Courten e Zappi.

I fatti

L'8 settembre, alcuni giorni prima dell'attacco una lettera autografa del re Vittorio Emanuele II venne consegnata a papa Pio IX dal conte Gustavo Ponza di San Martino, senatore del Regno. Nell'epistola al "Beatissimo Padre" Vittorio Emanuele, dopo aver paventato le minacce del «partito della rivoluzione cosmopolita», esplicitava «l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine».[7]
Il 10 settembre il conte San Martino scrivendo da Roma al capo del governo, Giovanni Lanza, descrive i suoi incontri con il cardinale Antonelli del giorno precedente e in particolare l'incontro con il Papa. Scrive il conte:
« … che sono stato dal Santo Padre, che gli ho consegnato la lettera di Sua Maestà e la nota rimessami da V. Eccellenza.... Il Papa era profondamente addolorato, ma non mi parve disconoscere che gli ultimi avvenimenti rendono inevitabile per l'Italia l'azione su Roma… Esso [il Papa] non la riconoscerà legittima, protesterà in faccia al mondo, ma espresse troppo raccapriccio per le carneficine francesi e prussiane, per non darmi a sperare che non siano i modelli che vuol prendere … fui fermo nel dirgli che l'Italia trova il suo proposito di avere Roma, buono e morale… Il Papa mi disse, leggendo la lettera, che erano inutili tante parole, che avrebbe amato di meglio gli si dicesse a dirittura che il governo era costretto di entrare nel suo Stato »
(Ponza di San Martino)

Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V.M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V.M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii che contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V.M. per liberarla da ogni pericolo, renderla partecipe delle misericordie onde Ella ha bisogno.

Il conte di San Martino riferì verbalmente la frase pronunciata da Pio IX: «Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in realtà vi dico che non entrerete in Roma».[8] Dopo tre giorni di inutile attesa (durante i quali si aspettò invano la dichiarazione di resa), la mattina del 20 settembre (intorno alle nove) l'artiglieria [9] dell'esercito italiano, guidata dal generale Raffaele Cadorna, aprì una breccia di circa trenta metri nelle mura della città, accanto a Porta Pia, che consentì a due battaglioni (uno di fanteria, l'altro di bersaglieri) di occupare la città; una curiosità è che tra i partecipanti all'evento vi fu anche lo scrittore e giornalista Edmondo De Amicis, autore del libro Cuore, all'epoca ufficiale dell'esercito italiano. Il primo francobollo a portare per il mondo la notizia dell’unificazione della nazione fu il Vittorio Riquadrato di cui è giunto perfettamente conservato un esemplare su lettera timbrata proprio il 20 settembre 1870 a Roma.[10]
Secondo la descrizione di Antonio Maria Bonetti (1849-1896), caporale dei Cacciatori Pontifici:
« Stavamo sulle righe, quando alcune voci sulla Piazza di San Pietro gridarono: "Il Papa, il Papa!". In un momento, cavalieri e pedoni, ufficiali e soldati, rompono le righe e corrono verso l'obelisco, prorompendo nel grido turbinoso e immenso di: "Viva Pio IX, viva il Papa Re!", misto a singhiozzi, gemiti e sospiri. Quando poi il venerato Pontefice, alzate le mani al cielo, ci benedisse, e riabbassatele, facendo come un gesto di stringerci tutti al suo cuore paterno, e quindi, sciogliendosi in lacrime dirotte, si fuggì da quel balcone per non poter sostenere la nostra vista, allora sì veruno più poté far altro che ferire le stelle con urla, con fremiti ed esecrazioni contro coloro che erano stati causa di tanto cordoglio all'anima di un sì buon Padre e Sovrano »
Pio IX condannò aspramente l'atto, con cui la Curia Romana vide sottrarsi il secolare dominio su Roma. Si ritirò in Vaticano, dichiarandosi "prigioniero" fino alla morte, e intimò ai cattolici - con il celebre decreto Non expedit - di non partecipare più da quel momento alla vita politica italiana. Il parlamento italiano, per cercare di risolvere la questione, promulgò nel 1871 la Legge delle Guarentigie, ma il Papa non accettò la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal governo e non mutò il suo atteggiamento. Questa situazione, indicata come "Questione Romana", perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929.

Considerazioni belliche

Nonostante l'importanza storica dei fatti (la riunione di Roma all'Italia e la fine dello Stato Pontificio), dal punto di vista militare l'operazione non fu di particolare rilievo. La assai debole resistenza opposta dall'esercito pontificio (complessivamente 15.000 uomini, tra cui dragoni pontifici, guardie svizzere, volontari provenienti per lo più da Francia, Austria, Baviera, Paesi Bassi, Irlanda, Spagna, ma soprattutto Zuavi, al comando dal generale Kanzler) ebbe in particolare valore simbolico.
Sulle ragioni per cui papa Pio IX non esercitò un'estrema resistenza sono state fatte varie ipotesi: la più accreditata è l'ipotesi della rassegnata volontà del Vaticano di mettere da parte ogni ipotesi di una violenta risposta militare all'offesa. È infatti noto che l'allora segretario di stato, il cardinale Giacomo Antonelli, abbia dato ordine al generale Kanzler di ritirare le truppe entro le mura e di limitarsi ad un puro atto di resistenza simbolico per evitare inutili e disumani spargimenti di sangue.

Nessun commento: