07 dicembre, 2008

PROMEMORIA 7 dicembre 1852 - Esecuzione dei Martiri di Belfiore


Esecuzione dei Martiri di Belfiore.
L'episodio risorgimentale noto come Martiri di Belfiore (dalla valletta di Belfiore situata all'ingresso sud di Mantova ove furono eseguite le sentenze di morte) riguarda la prima di una lunga serie di condanne a morte per impiccagione irrogate dal governatore generale del Lombardo-Veneto, feldmaresciallo Radetzky. Esse rappresentarono il culmine della repressione seguita alla prima guerra d'indipendenza e segnarono il fallimento di ogni politica di riappacificazione.

La particolare situazione di Mantova

La città di Mantova era entrata a far parte del patrimonio della casa d’Asburgo d’Austria sin dal 1707. Capitale di un piccolo ma assai ricco ducato, la città presentava, anche, degli importanti vantaggi militari: tanto per la qualità delle fortificazioni, quanto per la posizione geografica, che consentiva di controllare il passaggio dal Veneto alla Lombardia, nonché un gran numero di passaggi sul Po.
Infatti, essa fu al centro della campagna napoleonica del 1797, di tutte le successive invasioni austriache sino alla resa di Eugenio di Beauharnais il 23 aprile 1814 nelle mani di Heinrich Johann Bellegarde. Appare quindi logico che, a partire dal 1815 gli Austriaci abbiano ridotto la città ad una sorta di grande piazzaforte, forse la più grande del regno Lombardo-Veneto.
Con tanti militari in giro, essa si adattava splendidamente, ad ospitare (nel castello di San Giorgio) un carcere di massima sicurezza, come diremmo oggi, per patrioti lombardi e veneti, incarcerati per la loro opposizione alla occupazione austriaca. Lo stesso ragionamento, d’altra parte, avevano svolto i francesi quando, il 20 febbraio 1810, avevano giustiziato, proprio a Mantova, il patriota tirolese Andreas Hofer (il quale si era ribellato a due regni clienti di Napoleone: i bavaresi che occupavano il Tirolo germanico e il Regno d'Italia che aveva annesso il Trentino italiano).

Il contesto politico

L’atteggiamento del governo austriaco subì un forte indurimento, dopo la sconfitta dell’esercito di Carlo Alberto (che univa l’esercito sardo ed innumerevoli volontari lombardi, veneti e di molte altre regioni italiane). In un solo anno, dall'agosto del 1848 all'agosto del 1849, vennero eseguite 961 impiccagioni e fucilazioni, comminate oltre 4.000 condanne al carcere per cause politiche, effettuate numerose requisizione dei beni degli espatriati, imposti pesanti tributi ed imposte straordinarie alle popolazioni. La politica repressiva era operata direttamente dal Feldmaresciallo Radetzky, governatore generale, ma fortemente sostenuta, a Vienna dalla corte. Ciò che non lasciava spazio di ambiguità riguardo alle reali intenzioni della potenza occupante.
Il clima era stato, se possibile, aggravato dalle due visite dell’Imperatore nel 1851 (marzo-aprile a Venezia, settembre-ottobre a Milano, Como e Monza), che avevano mostrato come la politica del Felmaresciallo Radetzky non avesse ottenuto alcun successo nell’avvicinare le popolazioni e la nobilità al regime asburgico.
In coincidenza con i falliti viaggi, il governatore generale plenipoteziario, aveva emesso due proclami (21 febbraio e 19 luglio 1851) che decretavano da uno a cinque anni di carcere duro per chi fosse stato trovato in possesso di scritti ‘rivoluzionari’ (patriottici, diremmo noi), reimponeva lo stato di assedio, teneva solidalmente responsabili le municipalità che avessero ospitato, anche a loro insaputa, società segrete.

Le esecuzioni

Il vescovo di Mantova tentò ancora un intervento, sostenuto anche da altri vescovi e dalla generale commozione che si era diffusa in tutto il Lombardo-Veneto. Il governatore generale accettò unicamente di commutare la pena in otto-dodici anni di ferri in fortezza per alcuni patrioti condannati, ma confermò la pena per Tazzoli, Scarsellini, Poma, De Canal e Zambelli. I due austriaci erano, probabilmente, convinti di dar prova di una magnanimità cesarea. In realtà commettevano un tremendo errore politico, che segnò la fine di ogni prospettiva di pacificazione delle province italiane. A perderci di più fu l’immagine di Francesco Giuseppe, che cominciò, appena ventiduenne, ad essere indicato come l’”impiccatore”: un marchio del quale non si sarebbe mai liberato, fino alle esecuzioni di Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro, Damiano Chiesa, Fabio Filzi e Cesare Battisti, nomi che sarebbero stati consegnati ai posteri dalla Canzone del Piave.
La mattina del 7 dicembre i cinque condannati furono condotti nella valletta di Belfiore, situata fuori porta Pradella all'ingresso sud della città, ove furono appesi alle forche.
Nel marzo 1853, furono comminate le ultime condanne contro i restanti ventitré cospiratori. Prima Speri, Montanari e don Grazioli, arciprete di Revere furono condannati a morte ed impiccati a Belfiore il 3 marzo 1853. Ai restanti venti imputati la condanna a morte venne commutata in vent’anni di reclusione. Più tardi venne condannato Pietro Frattini, impiccato il 19 marzo. La piccola strage terminò solo due anni dopo, il 4 luglio 1855, con l’impiccagione di Fortunato Calvi, poco oltre il ponte di San Giorgio.
Per somma ingiuria, e con gran dispetto alla pietà cristiana, il governo austriaco vietò il seppellimento in terra consacrata. Ciò doveva suonare ad ulteriore umiliazione della Chiesa mantovana.

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