15 dicembre, 2009
PROMEMORIA 15 dicembre 1969 - L'anarchico Giuseppe Pinelli muore, dopo un volo dal quarto piano del commissariato di Milano.
L'anarchico Giuseppe Pinelli muore, dopo un volo dal quarto piano avvenuto in circostanze mai chiarite, durante un interrogatorio nella stanza del commissario Calabresi in relazione alle indagini sulla strage di piazza Fontana. L'avvenimento è raccontato ne La ballata del Pinelli, scritta da giovani anarchici mantovani la sera stessa dei funerali e successivamente rielaborata da Joe Fallisi nel 1969.
Giuseppe Pinelli (Milano, 21 ottobre 1928 – Milano, 15 dicembre 1969) è stato un anarchico e ferroviere italiano, animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa e durante la Resistenza, vista la sua allora giovane età, staffetta nelle Brigate Bruzzi Malatesta. Nel mese di novembre del 1966 già militante anarchico, diede appoggio a Gennaro De Miranda, Umberto Tiboni, Gunilla Hunger, Tella e altri ragazzi del giro dei cosiddetti capelloni per stampare le prime copie della rivista Mondo Beat nella sezione anarchica "Sacco e Vanzetti" di via Murilio.
Morì il 15 dicembre 1969 precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era trattenuto per accertamenti in seguito alla esplosione di una bomba a piazza Fontana, evento noto come Strage di Piazza Fontana.
Le circostanze della sua morte, ufficialmente attribuita ad un malore, hanno destato sospetto a causa di alcune circostanze legate ai momenti del tutto eccezionali vissuti nel capoluogo lombardo a seguito della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Una parte dell'opinione pubblica ha avanzato il sospetto che Pinelli sia stato assassinato e che le indagini siano state condotte con metodi poco ortodossi ed in modo non imparziale. Tuttavia, l'inchiesta conclusa nel 1975 dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio ha escluso l'ipotesi dell'omicidio, giudicandola assolutamente inconsistente.
Il caso ha suscitato una polemica politica intrisa di vibrante animosità, tanto da parte di coloro che sostengono la tesi dell'omicidio, quanto da parte delle autorità, ed è peraltro assai arduo isolare la polemica riguardante questo caso da quelle relative, fra l'altro, alla strage di piazza Fontana, al Terrorismo, alla cosiddetta Teoria della strategia della tensione, al cosiddetto stragismo di stato, alla repressione dei circoli anarchici italiani ed all'assassinio del commissario Calabresi.
Il contesto
Il 1969 fu l'anno italiano della contestazione giovanile che seguì il Maggio francese, poi ricordato come il Sessantotto. Soprattutto nel nord Italia entrarono in fibrillazione numerose organizzazioni politiche dei più disparati orientamenti, spesso contrapposte tra loro e ostili verso i governi e i partiti di governo e di opposizione.
Dallo scontro dialettico si passò sovente allo scontro fisico, a scontri di piazza con le forze dell'ordine, che sfociarono a volte nella guerriglia urbana. Notevoli furono gli scontri di Valle Giulia a Roma: gli studenti universitari per la prima volta caricarono le forze dell'ordine.
Le forze dell'ordine venivano viste con sospetto dai contestatori per il ruolo svolto negli scontri di piazza ed erano considerate un simbolo dell'ingiustizia del potere contro cui i contestatori lottavano. Non mancavano tuttavia le posizioni opposte, come quella di Pier Paolo Pasolini che sottolineava la vera e autentica condizione proletaria di molti poliziotti e carabinieri.
In questo clima arroventato, sul finire del 1969, il 12 dicembre, nei locali della Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano, lo scoppio di una bomba uccise numerose persone.
I fatti
La notte successiva alla strage la polizia fermò 84 sospetti, tra cui Pinelli, che venivano rilasciati man mano che il loro alibi veniva verificato. Tre giorni dopo, il 15 dicembre, Pinelli si trovava nel palazzo della questura, sottoposto ad interrogatorio da parte di Antonino Allegra e del commissario Luigi Calabresi, oltre che tre sottufficiali della polizia in forza all'Ufficio Politico, un agente, ed un ufficiale dei carabinieri, quando dalla finestra dell'ufficio dove stava avvenendo l'interrogatorio precipitò dal quarto piano in un’aiuola della questura. Fu portato all'ospedale Fatebenefratelli, ma ci arrivò già morto.[1]
La prima versione data dal questore Marcello Guida nella conferenza stampa convocato poco dopo la morte dell'anarchico, a cui parteciparono anche il dott. Antonino Allegra, responsabile dell'ufficio politico della questura e il Commissario Calabresi fu di suicidio (""Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto", dalle dichiarazioni del questore [2]), dovuto al fatto che il suo alibi si era rivelato falso, versione poi ritrattata quando l'alibi di Pinelli si rivelò invece credibile.[3] [4]. Secondo alcune versioni iniziali della polizia, mai confermate, Pinelli precipitando avrebbe gridato l'ormai celebre frase: «È la fine dell'anarchia!».
Il fermo di Pinelli era illegale perché egli era stato trattenuto troppo a lungo in questura: il 15 dicembre 1969 (la data della sua morte) egli avrebbe dovuto essere libero oppure in prigione ma non in questura, infatti il fermo di polizia poteva durare al massimo due giorni. Il giorno successivo, 16 dicembre, in seguito alla comparsa di un testimone, un tassista, veniva arrestato Pietro Valpreda.
Le indagini sulla morte
Sulla morte di Giuseppe Pinelli si aprì una prima inchiesta che concluse con una archiviazione. Il 24 giugno 1971 la vedova Pinelli presentò una denuncia. Fu aperta una nuova inchiesta assegnata al Dr. D'Ambrosio. La sentenza dell'inchiesta sulla morte di Giuseppe Pinelli fu emessa nell'ottobre 1975. La sentenza concluse che la morte di Pinelli non era dovuta a suicidio o omicidio, ma a un malore che avrebbe provocato un involontario balzo del Pinelli dalla finestra della Questura. L'inchiesta accertò inoltre che nella stanza al momento della caduta erano presenti 4 agenti della polizia e un ufficiale dei carabinieri, che furono prosciolti. L'inchiesta della magistratura, condotta da Gerardo D'Ambrosio, accolse le dichiarazioni dei coimputati, secondo i quali il commissario Calabresi non era presente nel momento della caduta. L'unico testimone, Pasquale Valitutti, anch'egli presente in Questura e trattenuto in una stanza vicina dichiarò sotto giuramento che al contrario il commissario era presente nella stanza da dove cadde Pinelli[5]. Gerardo D'Ambrosio scrisse nella sentenza: "L'istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli". [6]
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