31 marzo, 2010
A Palazzo Valentini la mostra "La Follia dell'Uomo"
A Palazzo Valentini la mostra "La Follia dell'Uomo"
È stata inaugurata a Palazzo Valentini il convegno per la mostra di pittura, scultura e grafica del Circolo Artistico Culturale "Lorenzo Viani"; tema della mostra "LA FOLLIA DELL'UOMO".
Il percorso espositivo nella sala Egon Von Fustenberg di Palazzo Valentini permette di ammirare le opere di 39 artisti soci del Circolo. Un’esposizione itinerante in cui gli artisti si sono espressi con tematiche molto diverse: chi sulla malattia mentale, chi sulla follia come male della società.
La mostra resterà aperta fino a giovedì 8 aprile prossimo, con ingresso gratuito, dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle 19:00, sabato ore 10:00 - 13:00; domenica e festivi chiuso.
"Lorenzo Viani" è il primo Circolo Artistico di Ostia impegnato in numerose attività culturali nel Territorio. Il Circolo organizza da oltre 25 anni numerose ed importanti mostre periodiche : la mostra "Arte Contemporanea sul Mare" (luglio, agosto e dicembre) nel centro storico di Ostia, dando la possibilità a oltre 70 artisti di confrontarsi e farsi apprezzare da tutti gli amanti dell’arte.
Altre collettive di rilievo la mostra di primavera nel Borgo di Ostia Antica e a novembre in collaborazione con il Municipio Roma XIII, il Comando della Scuola di Polizia Tributaria l’appuntamento nella Caserma IV Novembre di Ostia dedicata al poeta/artista Lorenzo Viani che dipinse alcune sale dell’edificio..
Info: circoloviani@virgilio.iy
sito: www.circoloviani.it
Mostra “La follia dell’uomo”
Sala Egon von Furstenberg
30 marzo - 8 aprile 2010
lun.-ven. 10:00 – 19:00
sabato 10:00 – 13:00
domenica e festivi chiuso
Oggi ultimo giorno per visitare "L'oscillazione del senso" la mostra di Vittorio Vinci tra architettura, design e scultura
"L'oscillazione del senso" la mostra di Vittorio Vinci tra architettura, design e scultura
Presso la sala stampa di Palazzo Valentini, sede dell’Amministrazione provinciale (via IV novembre 119/a), è stata inaugurata la mostra “L’oscillazione del senso” di Vittorio Vinci, patrocinata dalla Provincia di Roma.
L'esposizione rimarrà aperta al pubblico fino al 31 marzo prossimo con ingresso gratuito ed è visitabile dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle 19:00; sabato 10:00-13:00; domenica chiuso.
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Con questa mostra Vinci intende divulgare il suo itinerario di artista che è indirizzato a ricomporre, nel progetto di architettura, le tappe conoscitive raggiunte nell’ambito della scultura e del design.
Questo è possibile attraverso l’esposizione di oggetti scultorei, modelli tridimensionali di oggetti di design, stampe di immagini di architettura.
PROMEMORIA 31 marzo 2005 Washington: Muore Terri Schiavo, dopo aver vissuto per 15 anni in coma vegetativo
Washington: Muore Terri Schiavo, dopo aver vissuto per 15 anni in coma vegetativo. Il 18 marzo il marito Michael aveva ottenuto dal Tribunale l'autorizzazione ad interrompere l'alimentazione artificiale della moglie, malgrado i genitori della donna fossero decisamente contrari. La lenta morte della donna diventa un grande caso mediatico sia negli USA che nel resto del mondo.
Negli Stati Uniti fece scalpore il caso di Terri Schiavo, in stato vegetativo persistente (PVS) dal 1990, al cui marito Michael la corte suprema dello Stato della Florida diede nel 2005 il permesso di sospendere l'alimentazione forzata. Anche in quel caso si discusse sulla correttezza dell'uso del termine eutanasia. La sospensione della terapia in casi di coma irreversibile o PVS è prassi normale negli Stati Uniti: il caso nacque perché i genitori di Terri si erano sempre opposti alla richiesta del genero, imputandola solo al suo desiderio di liberarsi della moglie. Terri divenne, suo malgrado, oggetto di battaglia ideologico-politica tra i sostenitori e gli oppositori dell'eutanasia.
L'esame autoptico praticato sulla donna dopo la sua morte appurò che il cervello di Terri Schiavo pesava circa la metà di quello di una donna in salute della stessa età, che gran parte delle cellule era irrimediabilmente distrutta o danneggiata, e che essa era totalmente incapace di percepire alcun senso, tanto meno sentire o vedere.
30 marzo, 2010
PROMEMORIA 30 marzo 1815 - Guerra austro-napoletana: con il Proclama di Rimini, il Re di Napoli Gioacchino Murat esorta gli italiani all'unità.
Guerra austro-napoletana: con il Proclama di Rimini, il Re di Napoli Gioacchino Murat esorta gli italiani all'unità nazionale, sancendo l'inizio del Risorgimento.
Il Proclama di Rimini è un appello con il quale, il 30 marzo 1815, Gioacchino Murat, insediato sul trono di Napoli da Napoleone, dopo aver dichiarato guerra all'Austria si rivolse agli italiani, chiamandoli alla rivolta contro i nuovi padroni, e presentandosi come alfiere dell'indipendenza italiana, nel tentativo di trovare alleati nella sua disperata battaglia per conservare il trono.
29 marzo, 2010
PROMEMORIA 29 marzo 1973 - Guerra del Vietnam: gli ultimi soldati americani lasciano Saigon, Vietnam del Sud.
Guerra del Vietnam: gli ultimi soldati americani lasciano Saigon, Vietnam del Sud. In totale i morti ammontano a 930.000 nord-vietnamiti, 180.000 sud-vietnamiti e 45.000 statunitensi.
La guerra del Vietnam venne combattuta tra il 1962 e il 1975 sul territorio del Vietnam del Sud e delle aree confinanti di Cambogia e Laos (vedi anche, Guerra segreta), e in missioni di bombardamento (Operazione Rolling Thunder) sul Vietnam del Nord.
Una parte delle forze in conflitto era la coalizione di forze composta da Vietnam del Sud, Stati Uniti, Corea del Sud, Thailandia, Australia, Nuova Zelanda, e Filippine.
Dall'altra parte c'era la coalizione formata da Vietnam del Nord e Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam (FLN) conosciuto anche come Viet Cong, un movimento di guerriglia Nordvietnamita. L'Unione Sovietica e la Repubblica Popolare Cinese fornirono aiuti militari al Vietnam del Nord e FLN, ma non presero parte alla guerra con le loro truppe.
La guerra fece parte di un più ampio conflitto regionale che coinvolse le nazioni confinanti di Cambogia e Laos, conosciuto come Seconda Guerra Indocinese.
In Vietnam, questo conflitto è conosciuto come Guerra Statunitense (in vietnamita Chiến Tranh Chống Mỹ Cứu Nước, letteralmente Guerra contro gli statunitensi per salvare la nazione).
Il 15 gennaio 1973, citando i progressi nei negoziati di pace, Nixon annunciò la sospensione dell'azione offensiva nel Vietnam del Nord, che venne fatta seguire da un ritiro unilaterale delle truppe statunitensi dal Vietnam. Gli accordi di pace di Parigi vennero firmati il 27 gennaio 1973, il che pose ufficialmente fine all'intervento statunitense nel conflitto del Vietnam. Il primo prigioniero di guerra americano venne rilasciato l'11 febbraio e a tutti i soldati statunitensi venne ordinato di andarsene entro il 29 marzo. Contrariamente alle precedenti guerre americane, i soldati di ritorno in genere non vennero trattati come eroi e i soldati vennero talvolta condannati per i crimini commessi durante la guerra.
L'accordo di pace non durò.
Anche se Nixon aveva promesso al Vietnam del Sud che avrebbe fornito supporto militare, nel caso di una situazione militare sgretolata, il Congresso votò contro ogni ulteriore sovvenzionamento dell'azione militare nella regione. Nixon stava anche lottando per la sua carriera politica, nel crescente scandalo Watergate. In questo modo, nessuno degli aiuti promessi ai sudvietnamiti era in arrivo. Anche se qualche piccolo aiuto economico continuò ad arrivare, la maggior parte venne incamerato da elementi corrotti del governo sudvietnamita, e poco venne effettivamente impiegato per lo sforzo bellico. Il 94° Congresso, alla fine, votò per un taglio totale di tutti gli aiuti, a partire dall'inizio dell'anno fiscale 1975-76 (1º luglio 1975). Allo stesso tempo gli aiuti al Vietnam del Nord da parte di URSS e Cina iniziarono ad aumentare, in quanto con l'abbandono degli americani, le due nazioni non vedevano più la guerra come importante per le loro relazioni con gli USA. L'equilibrio del potere pendeva decisamente dalla parte del Nord.
All'inizio del 1975 il Nord invase il Sud e consolidò rapidamente il suo controllo sulla nazione. Saigon venne catturata il 30 aprile 1975. L'episodio è detto "Liberazione di Sài Gòn" (espressione usata in Vietnam e nei paesi comunisti) o "Caduta di Sài Gòn" (espressione usata in Occidente). Il Vietnam del Sud fu annesso al Vietnam del Nord il 2 luglio 1976, per formare la Repubblica Socialista del Vietnam. Saigon venne ribattezzata Città Ho Chi Minh, in onore dell'ex Presidente nordvietnamita. Centinaia di sostenitori del governo sudvietnamita vennero arrestati e giustiziati, molti di più vennero imprigionati. Il governo comunista resiste tutt'oggi.
Il 21 gennaio 1977 il presidente statunitense Jimmy Carter graziò praticamente tutti quelli che si erano sottratti alla coscrizione per la guerra del Vietnam.
28 marzo, 2010
PROMEMORIA 28 marzo 1941 - Seconda guerra mondiale: battaglia di Capo Matapan (navale)
Seconda guerra mondiale: battaglia di Capo Matapan (navale)
La Battaglia di Capo Matapan (scontri di Gaudo e Matapan, 27 - 28 marzo 1941), combattuta nelle acque a sud del Peloponneso, fra l'isolotto di Gaudo e Capo Matapan, tra una squadra navale italiana e la Mediterranean Fleet che comprendeva anche alcune unità australiane, segnò il primo attacco notturno ai danni di forze dell'Asse e consegnò temporaneamente alla Royal Navy il dominio del Mediterraneo, infliggendo gravi perdite, morali e materiali, alla Regia Marina, che ne condizionarono in seguito le capacità offensive.
Premessa
L'operazione di Gaudo, prologo alla battaglia di capo Matapan, fu messa in atto da Supermarina nel marzo 1941 in seguito alle richieste dei tedeschi affinché fossero messi sotto pressione i convogli britannici che dai porti egiziani e della Cirenaica rifornivano di materiali da guerra e truppe le forze alleate in Grecia, in vista di un probabile quanto imminente attacco tedesco nei Balcani in appoggio alle stremate truppe italiane impegnate nella guerra greco-italiana.
I tedeschi, in particolare, accusavano Supermarina di inattività, rimproverandole un atteggiamento difensivo e dimesso verso gli inglesi. Supermarina, il cui principale impegno bellico era la scorta ai quotidiani convogli che rifornivano le truppe italiane e tedesche in Africa settentrionale, in Albania e nel Dodecanneso, volle organizzare un'operazione contro il traffico inglese, in modo da dimostrare ai tedeschi le proprie capacità offensive e da riprendere operazioni propriamente offensive dopo la tragica notte di Taranto.
Il piano predisposto da Supermarina consisteva nella predisposizione di due rapide incursioni offensive, una a nord ed una a sud di Creta, in caccia del traffico inglese. Le navi italiane avrebbero dovuto, se in condizioni di superiorità, attaccare i convogli incontrati e la relativa scorta, ritornando poi rapidamente nelle basi nazionali.
Per attuare detto progetto, Supermarina scelse di mobilitare forze più pesanti di quelle necessarie alle scopo. Se per combattere contro qualche convoglio inglese, scortato da qualche cacciatorpediniere, sarebbe stato sufficiente l'invio di qualche incrociatore leggero, di cui la Regia Marina era ben fornita, le pressioni tedesche consigliarono di far uscire in mare, per evitare accuse di codardia, la nave da battaglia Vittorio Veneto, una divisione di incrociatori pesanti e due di incrociatori leggeri, oltre ai cacciatorpediniere di scorta.
L'intera operazione era affidata al fattore sorpresa. Laddove gli italiani fossero stati avvistati prima di arrivare nelle acque di Creta, gli Inglesi avrebbero infatti avuto tutto il tempo di far allontanare eventuali convogli e di intercettare gli italiani con la "Mediterranean Fleet" di stanza ad Alessandria.
Inoltre, Supermarina pose quale condizione indispensabile per il successo dell'operazione, la continua scorta aerea della propria squadra per tutta la durata della missione. Era stato previsto pertanto l'intervento delle forze aeree nazionali di base in Italia e in Egeo (isola di Rodi) e di quelle tedesche del X° CAT (Corpo Aereo Tedesco - Fliegerkorps X, unità aerea anti-nave forte di circa 200 bombardieri e una settantina di caccia) di base in Sicilia. Per favorire il coordinamento aereo e per decifrare i messaggi avversari indipendentemente dall'intervento di Supermarina, l'Ammiraglio italiano fece imbarcare degli ufficiali di collegamento della Luftwaffe e un gruppo di decrittazione.
Scontro di Gaudo
La mattina del 27 marzo la Vittorio Veneto si riunì con la III Divisione a est della Sicilia, dove furono avvistate, nonostante la scorta aerea, da un ricognitore a largo raggio inglese tipo Sunderland che telegrafò immediatamente l'avvistamento al proprio comando; venne così a mancare il fattore sorpresa su cui il comando italiano contava per la buona riuscita della puntata offensiva.
Nonostante ciò, Supermarina confermò l'operazione con qualche piccola variante prudenziale, ordinando che tutte le nostre forze navali dovessero riunirsi la mattina successiva nei pressi dell'isolotto di Gaudo per attaccare il traffico nemico a sud di Creta.
Gli inglesi, da parte loro, dirottarono tutti i convogli in navigazione intorno a Creta, mentre l'Ammiraglio Cunningham ordinò alla propria flotta di trovarsi, la mattina del 28 marzo, in un punto nei pressi dell'isolotto di Gaudo, poco a est di dove doveva riunirsi la squadra italiana. Le due flotte si sarebbero così trovate a pochissima distanza nella prima mattina del 28 marzo. Mentre l'Ammiraglio Iachino ignorava però le mosse inglesi, la cui partenza da Alessandria era stata abilmente dissimulata per ingannare gli informatori dell'Asse, l'Ammiraglio Cunningham sapeva della presenza della squadra italiana, anche se ne ignorava l'esatta composizione. La mancanza di informazioni da parte dell'Ammiraglio Iachino sarebbe stata inoltre aggravata dal mancato intervento dell'aviazione italiana dell'Egeo, che contrariamente alle assicurazioni non eseguì le previste ricognizioni su Alessandra, né quelle dirette alla ricerca del traffico mercantile nemico, che pure era l'obiettivo dichiarato della missione.
In condizioni di mare calmo e buona visibilità, la mattina del 28 marzo, la flotta italiana giunse nelle acque di Gaudo divisa in due raggruppamenti: Vittorio Veneto e III Divisione in posizione avanzata, I e VIII Divisioni Incrociatori in posizione arretrata.
Iachino fece lanciare due ricognitori Ro-43 per individuare convogli o navi nemiche fino a 100 miglia di prora e nelle acque intorno a Creta. I ricognitori avvistarono poco dopo le 7, a circa 40 miglia dal primo gruppo italiano e con rotta sud-est, 4 incrociatori e 4 cacciatorpediniere (Divisione Orion dell'ammiraglio Pridham-Wippell), posizionatasi in zona fin dall'alba in previsione dell'arrivo delle forze navali italiane.
Alle 07.39 un aereo della portaerei Formidable avvistò la III Divisione; Pridham- Wippell diresse con gli incrociatori verso il grosso inglese che si trovava arretrato di 90 miglia, per permettere l'intervento delle unità da battaglia.
Gli incrociatori Duca D'Aosta e Duca degli Abruzzi alla fonda nella baia di Navarino in Grecia.Il Duca degli Abruzzi ha ormeggiato al suo fianco sinistro il Cacciatorpediniere Corazziere
Non essendo a conoscenza dell'uscita di Cunningham con le navi da battaglia (i ricognitori italiani avevano sì avuto l'incarico di esplorare le acque tra Gaudo e Alessandria, ma si erano poi concentrati sull'avvistamento della Divisione Orion, segnalandola più volte, senza più spingersi verso sud-est, mentre non erano decollati da Rodi i ricognitori che avrebbero dovuto assicurarsi della presenza in porto della squadra inglese), Iachino spinse la sua III Divisione, seguita a distanza dal Vittorio Veneto, all'inseguimento degli incrociatori nemici, contando sulla maggior velocità che, almeno sulla carta, avevano gli incrociatori italiani della classe Trieste.
Non riuscendo in realtà ad avvicinarsi nonostante che gli Orion procedessero a zig-zag emettendo fumo per non dare riferimenti fissi al puntamento, gli incrociatori italiani aprirono il fuoco alle 08.12 con i 203 mm, da circa 24.000 m di distanza, inquadrando i bersagli; gli inglesi risposero con alcune salve da 152 mm, che risultarono troppo corte. L'azione di fuoco, della durata complessiva di 40 minuti, non ebbe esito alcuno da nessuna delle due parti. Gli italiani non si resero conto che, in realtà, gli inglesi non stavano affatto scappando, ma stavano attirando gli incrociatori della III Divisione in una pericolosa trappola, allontanandoli dal resto della squadra e portandoli a tiro dei cannoni delle corazzate inglesi.
Alle 8.51 la III divisione, dopo ripetuti ordini da parte dell'Ammiraglio Iachino di sospendere l'inseguimento, invertì la rotta, puntando a nord-ovest assieme al Vittorio Veneto, seguito a distanza dagli incrociatori inglesi che mantenevano il contatto visivo a distanza per segnalarne la posizione all'ammiraglio Cunningham. Quest'ultimo si trovava a circa 65 miglia di distanza e cercava di raccorciare le distanze per ingaggiare le navi italiane col grosso delle forze.
Iachino a questo punto sapeva con certezza della presenza di una portaerei nemica, che ben difficilmente poteva trovarsi in mare da sola, mentre il proprio servizio di decrittazione confermò la presenza, non lontana dalla squadra italiana, di una consistente squadra inglese (gli italiani intercettarono sia il traffico inglese, sia un messaggio di scoperta finalmente lanciato da un ricognitore italiano che segnalava la presenza di tre corazzate e unità minori, ma che fu ritrasmesso da Supermarina a Iachino solo nel pomeriggio). Non vi era dubbio, pertanto, che la missione era certamente fallita, e che la prudenza consigliava di ritornare immediatamente alla base, tanto più che non vi era traccia alcuna della prevista scorta aerea.
Alle 10.30 l'Ammiraglio Iachino fece un ulteriore tentativo di ingaggiare gli incrociatori inglesi manovrando in modo da prendere la Divisione Orion tra due fuochi, aggirandola da levante col Vittorio Veneto e da ponente con la III Divisione. Prima che la III Divisione fosse a portata di tiro, però, si sviluppò un rapido e violento scontro a controbordo tra il solo Vittorio Veneto e gli incrociatori nemici, i quali, colpiti in modo non grave da pochi colpi isolati, accostarono poco dopo verso sud, ritirandosi ad alta velocità coprendosi con cortine di fumo.
L'Ammiraglio Cunningham, informato di questo secondo scontro, fece alzare dalla Formidable un gruppo di aerosiluranti Fairey Albacore, che arrivarono sul Vittorio Veneto durante l'azione di fuoco ed attaccarono a bassa quota, lanciando da notevole distanza senza risultato; ottennero però l'effetto sperato in quanto l'ampia accostata del Vittorio Veneto per evitare i siluri permise agli incrociatori inglesi di allontanarsi. Non potendo ormai più riprendere l'azione di fuoco, Iachino tornò in rotta nord-ovest.
Lo scontro di Capo Matapan
L'ammiraglio Pridham-Wippell rinunciò a mantenere il contatto e ripiegò verso il gruppo dell'ammiraglia, ad una quarantina di miglia di distanza, che raggiunse alle 12.30.
Gli inglesi, ben conoscendo la posizione del nemico, effettuarono allora 2 attacchi quasi consecutivi con bombardieri contro la Vittorio Veneto, rispettivamente alle 14.20 e alle 14.50, senza esito alcuno.
Un terzo attacco, alle 15.19, fu effettuato contemporaneamente da bombardieri in quota ed aerosiluranti a bassa quota; la Vittorio Veneto evitò due siluri ma il terzo la colpì di poppa a sinistra, facendole imbarcare 4.000 t di acqua e mandando in avaria le due eliche di sinistra, costringendola a ritirarsi alla velocità ridotta di 16 nodi, protetta in formazione antiaerea dalla I Divisione a dritta e dalla III a sinistra, con le rispettive squadriglie di cacciatorpediniere schierati su due linee parallele all'esterno degli incrociatori. Si veniva cosi a costituire, intorno alla corazzata danneggiata, una formazione compatta di 18 unità su cinque colonne, con l'ordine di distendere cortine di nebbia in caso di rinnovato attacco aereo.
Dodici aerosiluranti inglesi attaccarono infatti alle 19.30, in pieno crepuscolo, mettendo a bersaglio un solo siluro sul Pola, che riportò gravissimi danni e rimase immobile privo di propulsione ed energia elettrica. Secondo la testimonianza di un superstite[1], la Royal Navy ha cannoneggiato parecchie scialuppe di salvataggio stracariche di naufraghi, individuate dai radar, temendo che potessero essere dei mezzi d'assalto, detti maiali, e che potessero quindi costituire un pericolo per le loro navi. Questo contribuì ad aumentare il numero delle vittime del naufragio del Pola.
Tuttavia il cacciatorpediniere inglese Jervis, inviato a finire il Pola, accertato che la nave non dava più segni di combattività decise di abbordarla, traendo in salvo l'intero equipaggio italiano superstite prima di colarla a picco. Nelle ore successive gli inglesi raccolsero in mare oltre 900 naufraghi italiani, prima di sospendere il salvataggio per sfuggire ad un attacco aereo tedesco. Nell'abbandonare la zona Cunningham inviò un radio messaggio diretto al capo di Stato maggiore italiano Riccardi, con le coordinate dei naufraghi ancora in mare, invitandolo a mandare sul posto una nave ospedale. Riccardi rispose ringraziando l'ammiraglio inglese per il gesto cavalleresco ed informò l'ammiraglio avversario di aver inviato in zona la nave Gradisca. Questa però giunse sul posto solo il 31, trovando il mare arrossato dai giubbotti di salvataggio che tenevano a galla migliaia di marinai ormai cadaveri; poco meno di 150 superstiti, ancora in vita, furono tratti a bordo della nave ospedale italiana.
Dal siluramento del Pola nasce il dramma della notte di Matapan. L'ammiraglio Iachino, con una decisione che sarà al centro di interminabili polemiche, pur sapendo della presenza della squadra inglese, ordinò al resto della I Divisione di restare in soccorso del Pola. Deve premettersi, al riguardo, che nella Regia Marina solo i cacciatorpediniere erano addestrati per il combattimento notturno, mentre le navi maggiori (incrociatori e corazzate) non disponevano neanche delle necessarie cariche di lancio a vampa ridotta. Diversamente, tutte le navi inglesi erano addestrate e attrezzate per il combattimento notturno, ed alcune di esse erano inoltre dotate di radar. Questo apparecchio, se non permetteva ancora una direzione del tiro, avrebbe comunque agevolato scoperta notturna di bersagli prima che fossero a portata ottica, aumentando notevolmente le probabilità di intercettazione. Il disastro di Matapan è conseguenza anche dell'avversione alle innovazioni tecniche della Regia Marina. Diversi scienziati italiani, fra cui il Professor Tiberio, docente all'Accademia Navale di Livorno, avevano già realizzato radiolocalizzatori di una certa efficacia, ma lo Stato Maggiore della Marina sostanzialmente si disinteressò di tali ricerche non valutandone il futuro rivoluzionario impatto sulla tattica navale.
Al calare delle tenebre, infatti, l'Ammiraglio Cunningham ordinò ai 4 incrociatori della Orion appoggiati da 8 cacciatorpediniere di cercare un contatto notturno con le navi italiane, ed in particolare con la Vittorio Veneto, utilizzando anche le apparecchiature radar di cui erano dotate.
L'intrinseca situazione di pericolo, per il Pola e per la Divisione che Iachino aveva mandato in suo soccorso, si aggravò in conseguenza delle successive indecisioni italiane. L'ammiraglio Cattaneo, infatti, al comando della I divisione, invece di invertire subito la rotta, inviò un messaggio a Iachino ("dite se devo invertire la rotta"), anch'esso oggetto di polemiche e discussioni. Solo dopo aver ricevuto risposta a detto messaggio ("invertire la rotta"), Cattaneo ordinò alla propria divisione di dirigere verso il Pola, riducendo la velocità. Si perse così, in relazione al tempo necessario per la cifratura e decrittazione dei messaggi, un'ora di tempo. La manovra a un tempo ordinata da Cattaneo, fece sì che i cacciatorpediniere di scorta si ritrovarono a seguire, e non a precedere gli incrociatori. Cattaneo, inspiegabilmente, non ritenne necessario modificare la propria formazione, anche se il regolamento prescriveva che nella navigazione notturna i caccia precedessero le navi di linea con uno schermo esplorativo.
Nel frattempo, le manovre inglesi si erano dimostrate del tutto errate nella prospettiva di intercettare il grosso italiano, che poté pertanto rientrare alla base senza ulteriori problemi. Con il radar, gli inglesi individuarono invece il Pola, rimasto immobile e privo di corrente elettrica. Nel momento in cui la squadra inglese si avvicinava al Pola, per catturarlo o affondarlo, furono avvistate le altre navi italiane giunte in suo aiuto, che avevano anch'esse avvistato il Pola.
In soli 3 minuti, a una distanza di appena 2000 metri e sotto i fasci di luce dei proiettori, i proiettili di grosso calibro sparati a bruciapelo delle navi da battaglia inglesi ebbero ragione dello Zara, del Fiume e di 2 dei 4 cacciatorpediniere che li seguivano, Alfieri e Carducci (riuscirono invece a defilarsi il Gioberti, indenne, e l'Oriani, gravemente colpito).
L'unica unità navale italiana che in quella disgraziata notte reagì al fuoco inglese, seppur senza successo, fu il cacciatorpediniere Alfieri che in affondamento riuscì a caricare e sparare verso il cacciatorpediniere inglese in avvicinamento che aveva aperto il fuoco verso l'unità italiana con tutte le armi di bordo.
Il direttore del tiro, tenente di vascello Italo Bimbi che si precipitò per aprire il fuoco coll'unico complesso ancora efficiente mentre l'Alfieri ormai affondava, sopravviverà insieme a soli cinque componenti di tutto l'equipaggio. Cunningham, temendo la presenza di altri caccia italiani, si allontanò subito dal luogo del combattimento, lasciando ai caccia inglesi il compito di affondare il Pola.
I relitti in fiamme, ma ancora galleggianti, furono finiti dai siluri dei cacciatorpediniere inglesi, richiamati dal fragore e dai bagliori dello scontro.
La Vittorio Veneto, a circa 40 miglia di distanza dallo scontro di Matapan, assistette impotente. Il messaggio inviato da Iachino a Cattaneo ("dite se siete attaccati") rimase senza riposta.
Le vite perse furono 2.303.
Risultati
Lo scontro di capo Matapan avvenne in un momento in cui la Regia Marina aveva ancora vivo e cocente il disastro della notte di Taranto, che portò al dimezzamento della flotta da battaglia italiana. Le corazzate silurate a Taranto erano ancora in riparazione, e di fatto, tolta la Vittorio Veneto, gli incrociatori pesanti erano le navi più veloci e meglio armate della flotta. Perderne tre in un solo colpo, senza arrecare alcun danno al nemico, fu un colpo durissimo per i già timorosi vertici di Supermarina. Le grandi navi di superficie, che avrebbero dovuto giocare un ruolo di primo piano nella ricerca della supremazia sul mare, vennero utilizzate con sempre maggiore prudenza e timore di ulteriori danni, e all'audacia britannica non si rispose mai adeguatamente, se non attraverso le imprese dei mezzi d'assalto (e quindi di naviglio minore), o con esempi di grande valore limitati però ai singoli comandanti di unità sottili, come i comandanti Giuseppe Cigala Fulgosi e Francesco Mimbelli. L'esito disastroso dello scontro ebbe come prima conseguenza la completa assenza della Regia Marina nel Mediterraneo Orientale quando, un mese dopo la battaglia, gli inglesi furono impegnati via mare ad evacuare in tutta fretta i propri uomini dalla Grecia, operazione che fu contrastata solo dal cielo. Dopo Matapan i vertici della Regia Marina subirono gli eventi bellici ponendosi come obiettivo principale quello di non subire ulteriori perdite irreparabili.
L'esito della battaglia di Matapan fu determinato principalmente dall'evoluzione tecnica condotta dai britannici, contrapposto al livello di arretratezza - anche tattico - in cui versava la Regia Marina. Gli uomini di Cunningham disponevano infatti dei seguenti vantaggi:
Radar. Sulla Orion e sull'Ajax erano installati dei radar che consentirono di localizzare il Pola nonostante le condizioni di navigazione notturna.
Uso di una portaerei. La possibilità di lanciare attacchi aerei e di coordinare direttamente ricognizioni è stata la causa del declino delle possenti navi corazzate, impotenti e costrette a soccombere. La battaglia di Matapan servì a sottolineare il predominio dell'aereo sulla nave, accelerando la produzione di navi portaerei e convincendo lo stesso Mussolini ad approntare il progetto della prima portaerei italiana: Aquila.
Ultra, che consentì a Cunningham di conoscere in anticipo le mosse della flotta italiana. Dopo la guerra si appurò che l'avvistamento di Iachino da parte del Sunderland era in realtà "pilotato": quell'aereo era stato inviato, per non destare sospetti negli italiani, dopo che gli inglesi aveva intercettato e decifrato i messaggi trasmessi dagli italiani al X° CAT per la predisposizione della copertura aerea.
Armamento idoneo alla battaglia notturna. Gli inglesi disponevano di salve con abbaglio ridotto che ne consentivano l'impiego notturno. Gli incrociatori italiani non erano mai stati impiegati in cannoneggiamenti notturni e non tentarono nemmeno di rispondere al fuoco nemico (come prescritto dai regolamenti, i cannoni erano brandeggiati per chiglia e non erano pronti al fuoco).
Responsabilità tattiche gravano sia sul conto di Supermarina, che degli Ammiragli Iachino e Cattaneo, il quale perse la vita nello scontro. A Supermarina vanno addebitate le responsabilità di non aver coordinato in modo adeguato la copertura e la ricognizione aerea. Le comunicazioni fornite a Iachino, inoltre, erano imprecise, contraddittorie e giungevano con eccessivo ritardo.
Della condotta dell'Ammiraglio Iachino resta incomprensibile la decisione di distaccare due incrociatori in ritirata verso le coste pugliesi, anche se la sua maggiore responsabilità è stata quella di aver mandato tutta la prima divisione a soccorso del Pola, pur avendo molti elementi per prevedere un contatto con la flotta avversaria.
All'Ammiraglio Cattaneo si contesta la scelta di disporre la flotta in modo da far procedere i due incrociatori dinnanzi ai quattro cacciatorpediniere, soluzione incomprensibile sotto un profilo tattico, invece che posizionare questi ultimi in posizione avanzata con compiti di perlustrazione. Resta inspiegabile anche la scelta di viaggiare ad una velocità di 15 nodi, pur potendo navigare ad una andatura di 30 nodi.
L'intera operazione, inoltre, era intrinsecamente discutibile. Far uscire un'intera squadra per assolvere ad un compito che poteva essere svolto egregiamente da pochi veloci incrociatori leggeri voleva dire far correre rischi inutili alle navi, senza conseguire alcun vantaggio.
27 marzo, 2010
Dalla Regione via libera al regolamento attuativo della Legge sull'Altra Economia
Dalla Regione via libera al regolamento attuativo della Legge sull'Altra Economia
La Giunta Regionale del Lazio, durante la sua ultima seduta, ha dato il via libera al Regolamento attuativo della Legge sull'Altra Economia, il cui fine è quello di promuovere una economia basata sulla valorizzazione delle relazioni tra i soggetti piuttosto che sul capitale, e che sostiene attività come l'agricoltura biologica, la produzione di beni eco-compatibili, il commercio equo e solidale, il consumo critico, la finanza etica, il risparmio energetico e le energie rinnovabili, il riuso e il riciclo dei materiali, i sistemi di scambio non monetari, il software libero e il turismo responsabile.
Il Regolamento elenca e specifica le caratteristiche che debbono avere le imprese che intendono iscriversi all'apposito albo, condizionenecessaria per ottenere il marchio regionale dell'Altra Economia, lo strumento attraverso il quale la Regione Lazio certifica tutte quelle attività che rispettano i valori di trasparenza, solidarietà, rispetto dell'ambiente e dei diritti umani, come specificato dalla Legge. Il documento approvato istituisce, inoltre, la Consulta dell'Altra Economia; l'organo è composto dai rappresentanti di ognuno dei settori dell'Altra Economia individuati dalla Legge e finalizzati a sostenere chi opera in questo settore.
''Con uno dei suoi ultimi atti, la Giunta Regionale rende esecutiva una delle sue Leggi più innovative - dichiara l'assessore al Bilancio della Regione Lazio Luigi Nieri - il Lazio è infatti la prima Regione in Italia a dotarsi di uno strumento normativo che definisce, sostiene, promuove e certifica tutte quelle attività basate su un'equa ripartizione delle risorse, sul rispetto e sulla tutela dell'ambiente e sul perseguimento di obiettivi sociali. Si tratta di un grande risultato che pone la nostra Regione all'avanguardia dal punto di vista della responsabilità d'impresa e dei comportamenti etici''.
PROMEMORIA 27 marzo 1985 - A Roma le Brigate rosse uccidono l'economista Ezio Tarantelli
A Roma le Brigate rosse uccidono l'economista Ezio Tarantelli.
Ezio Tarantelli venne ucciso il 27 marzo 1985, a pochi passi dall'aula dove aveva appena tenuto una lezione ai suoi studenti. Verso le 11.50 [1] due individui lo colpirono con numerosi colpi di mitraglietta dopo essere salito sulla propria auto parcheggiata nel cortile della Facoltà.
L'assassinio venne rivendicato dalle "Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente" (BR-PCC) con un volantino lasciato sull'auto, in cui il professor Tarantelli veniva attaccato come teorico della predeterminazione degli scatti di scala mobile e come uno dei principali fautori della riforma strutturale del mercato del lavoro. Per questo era "sotto inchiesta" già da un anno e il suo nome faceva parte di un elenco trovato in uno dei covi dell'organizzazione criminosa. I processi accerteranno che l'omicidio venne organizzato e compiuto da esponenti del gruppo che lo aveva rivendicato.
Al Professor Tarantelli è oggi intitolata l'Aula Magna della Facoltà di Economia dell'Università La Sapienza e la biblioteca della Facoltà di Economia dell' Università della Calabria. Egli è inoltre ricordato da un monumento a forma circolare posto nel luogo dell'assassinio, nel cortile della Facoltà.
26 marzo, 2010
Zingaretti inaugura Centro per l'Impiego all'interno dell'Università Roma Tr
Zingaretti inaugura Centro per l'Impiego all'interno dell'Università Roma Tre
Il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti accompagnato dall'assessore al Lavoro ed alla Formazione Massimiliano Smeriglio, ha inaugurato questa mattina all'interno dell'Università di Roma Tre, un Centro per l'impiego, realizzato grazie al protocollo d'intesa che l'amministrazione provinciale ha sottoscritto ad ottobre con le cinque università capitoline per aprire altrettanti sportelli dentro gli Atenei.
Il Centro nasce in collaborazione con Soul, sistema di orientamento università lavoro. La struttura rappresenterà un punto di riferimento per affacciarsi e confrontarsi con il mondo del lavoro e soprattutto per stabilire un primo contatto con le imprese.
A febbraio è stato inaugurato il primo sportello presso la Città universitaria in via De Lollis e gli altri saranno pronti entro la fine del 2010.
"Questa inaugurazione all'interno di un Ateneo, di una struttura di servizio della Provincia – ha affermato il presidente Zingaretti - ha come primo obiettivo puntare ad un grande innalzamento della qualità dei servizi alle imprese rivolti ai cittadini ed ai giovani come uno dei fattori strategici per migliorare la competitività del nostro sistema produttivo e formativo. Uno dei nodi da affrontare, infatti, per rendere il sistema produttivo più competitivo è innalzare, innovare e riformare sul terreno dei servizi, collocare i Centri per l'impiego nei luoghi primari di aggregazione giovanile ed intellettuale, gli Atenei”.
“Fondamentale – ha aggiunto Zingaretti – è la collaborazione con altri attori, in questo caso il mondo universitario. Uno dei grandi errori della pubblica amministrazione è quello di pensarsi a canne d'organo senza guardarsi attorno. Soul ma anche l'idea di aprire i Centri per l'impiego negli Atenei nasce dalla volontà di cooperare, concertare le scelte, unire le forze, migliorare la qualità dei servizi e l'eccellenza”.
“Siamo molto contenti di questa collaborazione – ha concluso il presidente Zingaretti – felici che in questi due anni abbiamo tenuto duro su quello che era uno dei punti di innovazione di un'idea di Giunta che univa la formazione al lavoro. Prima sotto la stessa responsabilità politica dopo alcuni mesi sotto la stessa responsabilità amministrativa".
"Poco tempo fa – ha spiegato l’assessore Smeriglio - abbiamo firmato un protocollo con le cinque Università pubbliche di Roma e Provincia ed abbiamo deciso di aprire cinque Centri per l'impiego tematici relativi alle professionalità che vengono dalle Università. In poco meno di due mesi abbiamo inaugurato lo sportello a La Sapienza e questo di Roma Tre. Nei prossimi mesi procederemo negli altri Atenei. Lo facciamo in collaborazione con il sistema Soul e per noi e' una grande innovazione.”
Ha proseguito Smeriglio: “Sappiamo della dimensione della crisi che stiamo vivendo e facciamo uno sforzo per affrontarla diversificando i nostri servizi. È un nostro tentativo di stare dentro la crisi, valorizzando i servizi pubblici che stiamo facendo crescere in qualità e quantità".
Il rettore Guido Fabiani, presente al taglio del nastro, ha dichiarato: "Ha ragione Zingaretti quando dice che questa è una sfida che noi accettiamo come Ateneo e nella quale ci impegneremo a fondo. Questa iniziativa sottolinea il ruolo nuovo dell'Università Roma Tre nella promozione delle politiche attive del lavoro. Mette in luce la valenza della collaborazione tra istituzione territoriale ed Ateneo: entrambi ne hanno bisogno come l'aria. L'apertura del centro per l'impiego, corrisponde in un momento difficile come questo alle esigenze degli studenti, che devono essere aiutati ad inserirsi sul mercato del lavoro".
Urbanistica: dalla Regione 500mila euro per i Comuni della Tuscia
Urbanistica: dalla Regione 500mila euro per i Comuni della Tuscia
La Giunta della Regione Lazio ha approvato la delibera che riguarda l'assegnazione dei contributi per agevolare la formazione di strumenti urbanistici comunali.
"L'obiettivo di questo provvedimento è l'adeguamento degli strumenti urbanistici che permettono di migliorare lo sviluppo del territorio, pronto a recepire le esigenze di crescita collettiva - ha detto Giuseppe Parroncini, assessore agli Enti Locali della Regione Lazio - In questo modo il territorio viene strutturato nel modo più giusto alle nuove domande di sviluppo, fornendo precise indicazioni per arrivare a interventi mirati e razionali nelle aree interessate dal provvedimento. Sviluppo del territorio significa soprattutto tenere conto delle reali esigenze urbanistiche, ambientali e strutturali."
In provincia di Viterbo i Comuni interessati dal provvedimento sono: Vasanello (50mila euro), Villa San Giovanni in Tuscia (24mila euro), Piansano (50mila euro), Vetralla (36.720 euro), Gradoli (50mila euro), Capranica (17.039 euro), Ronciglione (42mila euro), Castiglione in Teverina (30mila euro), Bagnoregio (50mila euro) e Vallerano (20mila euro).
Inoltre, con una seconda deliberazione, sempre concernente l'assetto urbanistico locale, la Giunta Regionale, attuando la legge 28 del 1980 riguardante le norme concernenti l'abusivismo edilizio, ha approvato lo stanziamento di 440mila euro a favore delle istanze presentate dalle amministrazioni comunali con l'obiettivo di recuperare i nuclei edilizi sorti spontaneamente allo scopo di ottimizzare il controllo del territorio. In particolare, per quanto riguarda la Tuscia, sono quattro i Comuni ammessi a contributo: Civita Castellana e Montefiascone (con popolazione fino a 30mila abitanti), sono beneficiari di 40mila euro mentre i comuni di Capranica e di Marta, con popolazione fino a 10mila abitanti, sono destinatari di un contributo di 25mila euro.
Lavoratori in cassa integrazione da impiegare nei tribunali del territorio. Siglato il protocollo d'intesa
Lavoratori in cassa integrazione da impiegare nei tribunali del territorio. Siglato il protocollo d'intesa
Nel solco dei precedenti accordi con il Tribunale di Roma per il collocamento al lavoro di persone in cassa integrazione da impiegare negli uffici di piazzale Clodio, il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti e l'assessore provinciale alla Formazione ed al Lavoro, Massimiliano Smeriglio, hanno firmato oggi un analogo protocollo d'intesa che estende il progetto a tutti i tribunali del territorio provinciale ovvero: Tivoli, Velletri e Civitavecchia.
Per dodici mesi, grazie alla firma odierna, 270 lavoratori saranno posti a supporto dell'attività degli uffici amministrativi o delle cancellerie, ricevendo un contributo di 300euro al mese come "integrazione economica".
"Il motore di questa iniziativa – ha spiegato il presidente Zingaretti - è l'idea semplice che lo Stato deve funzionare. Non devono e non possono esserci scorciatoie o dimenticanze. Grazie a questo protocollo d'intesa diamo sollievo a 270 famiglie che avranno un piccolo contributo in più, rispetto alla cassa integrazione e aiuteremo i tribunali a fare più velocemente i processi.
Così vogliamo essere vicini ai cittadini che spesso incappano in una giustizia bloccata e restano fermi per anni dietro a cause civili o penali”.
“La velocizzazione dei processi – ha aggiunto Zingaretti – mette nelle condizioni magistrati e giudici di fare il loro lavoro serenamente ed e' una parte importante per la ricostruzione della credibilità dello Stato nella quale io credo". “Noi – ha concluso Zingaretti – vogliamo unire il diritto al lavoro e la sua dignità con quello alla giustizia da parte dei cittadini".
"Questi lavoratori – ha affermato l'assessore Smeriglio - andranno a svolgere funzioni di ufficio, catalogazione, documentazione, archivio, supporto negli uffici e lavori informatici quindi quel livello intermedio che oggi è drammaticamente insufficiente per il funzionamento della giustizia e garantire la brevità dei processi”.
Smeriglio ha anche aggiunto: “Spediremo il progetto, per quale abbiamo investito quasi un milione di euro del Fondo Sociale Europeo, a tutti i Tribunali d'Italia per sollecitare le loro Province perché si possono ottenere risultati importanti".
Alla presentazione ed alla sigla del documento erano presenti: il segretario generale Corte di Cassazione di Roma, Francesco Tirelli, il segretario generale della Procura presso la corte di Cassazione di Roma, Pasquale Ciccolo, il presidente della Corte d'Appello di Roma, Giorgio Santacroce, il coordinatore ufficio di Giudici di pace di Roma, Alfredo Blasi, i Presidenti dei tribunali ordinari di Velletri, Tivoli e Civitavecchia, Francesco Monastero, Bruno Ferraro e Mario Almerighi, il Procuratore capo di Tivoli, Luigi De Ficchy, il Procuratore capo di Civitavecchia, Gianfranco Amendola, il Sostituto Procuratore della Repubblica di Velletri, Giuseppe Petrone. Presente anche il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro.
PROMEMORIA 26 marzo 1957 Federico Fellini riceve l'Oscar per Le notti di Cabiria
Federico Fellini riceve l'Oscar per Le notti di Cabiria.
Le notti di Cabiria è un film drammatico del 1957 diretto da Federico Fellini, vincitore dell'Oscar al miglior film straniero.
Trama
Cabiria (Giulietta Masina) è una giovane donna arrivata a fare il mestiere più antico del mondo perché deve sopravvivere alla miseria che l'ha afflitta per tutta la vita. In realtà non ha niente della classica "battona" romana di cui Fellini ci dà una rassegna nella scena della "Passeggiata archeologica", uno dei consueti luoghi di raccolta delle prostitute romane.[1]
Cabiria si riconosce come prostituta perché così vuole essere ma è una gracile donnina con una pelliccetta spelacchiata, un visino tondo dagli occhi spalancati, una zazzeretta da clown che le incornicia il volto, con una borsetta che agita nel vuoto per darsi un contegno: è insomma una caricatura di quelle che Fellini disegnava nel progettare i suoi film; si potrebbe dire quasi che Cabiria è una maschera della Commedia dell'Arte.[2] Una figurina che messa a confronto con la sua amica Wanda (Franca Marzi), questa sì il prototipo della classica, materna, monumentale "battona" romana, rivela tutta la sua incongruenza con il mestiere che Cabiria ha scelto di fare.[3]
Cabiria infatti non è una prostituta neppure nell'animo: ha conservato tutta la sua candida ingenuità e spontaneità nel voler credere, senza alcuna diffidenza, a quelle offerte d'amore che essa crede d'incontrare nella sua vita. Reagisce quando si scontra con la malvagità del mondo, con un'alzata di spalle, con una cantata e con un balletto. S'illude che qualcuno possa interessarsi a lei sia pure per una compagnia a pagamento come quella che le offre il mitico divo del cinema Alberto Lazzari (Amedeo Nazzari) che, spinto dalla noia e per fare un dispetto alla sua amante, porta Cabiria, incredula per l'onore di essere stata scelta da così importante personaggio, nella sua faraonica villa da cui sarà allontanata non appena l'amante tornerà a concedere i suoi favori al maturo attore. L'unico ricavo che Cabiria trarrà da questo incontro sarà una testata in una invisibile porta a vetri..[4]
L'ingenuità di Cabiria si rivela a pieno nella scena dell'ipnotizzatore (Aldo Silvani) nel cinema teatro di periferia dove si lascia convincere a salire sul palcoscenico tra i lazzi e le pesanti battute del pubblico romano. È una scena dove si mescolano comicità e compassione per la giovane donna, preda del cinico mago d'avanspettacolo che sfrutta Cabiria per metterne in ridicola luce tutti i suoi sogni infantili di una vita sognata.
Il dramma centrale del film è nell'episodio dell'incontro all'uscita del cinema con un uomo (François Périer) che, presentandosi come un umile ma serio borghese, fingendo di non aver capito il vero mestiere di Cabiria, la raggira, approfittando del bisogno d'amore della povera prostituta, chiedendole alla fine di sposarlo.[5]
Cabiria vuole credergli ad ogni costo, vende tutto quel poco che ha, la sua unica ricchezza: la casetta abusiva messa su con enormi ed umilianti sacrifici, e si abbandona al fidanzato che naturalmente non vuole altro che il suo denaro e che anzi sta per sbarazzarsene uccidendola, fermandosi solo perché un essere umano come Cabiria non può non suscitare pietà anche in un malvagio.
Questa volta Cabiria sembra non farcela a risollevarsi dal colpo ricevuto e pensa d'uccidersi quando, lungo una strada di campagna, incontra una comitiva di giovani che cantano e suonano in allegria e coinvolgono Cabiria nella loro gioia di vivere. Cabiria capisce di non essere sola e torna a credere ingenuamente nella vita, in quella sorta di circo, ci dice Fellini, che è l'esistenza umana.[6]
La critica
Morando Morandini ne La Notte del 10 ottobre 1957 osserva come il film possa apparire frammentato nel susseguirsi degli episodi della vita di Cabiria. In realtà sono legati da una solida struttura narrativa il cui centro è nel personaggio principale. Il film è come «una sinfonia in cui i diversi tempi, gli episodi, si allacciano l'uno all'altro, distaccati ma complementari, per analogia o per contrasto tutti convergenti» nella caratterizzazione della protagonista che tutti li armonizza nella drammaticità del suo destino.
25 marzo, 2010
Protezione Civile Regionale: iniziata la distribuzione delle tute coordinate
Protezione Civile Regionale: iniziata la distribuzione delle tute coordinate
È iniziata dal centro operativo della Protezione Civile Regionale di Prato della Corte a Roma la distribuzione dei kit di abbigliamento coordinato a tutte le associazioni di Protezione Civile della Regione. Da oggi dunque il personale operativo delle associazioni di protezione civile del Lazio sarà ovunque riconoscibile e avrà una divisa comune.
Oggi il direttore della Protezione Civile Regionale Maurizio Pucci ha simbolicamente avviato la distribuzione con un incontro che ha visto la consegna dei kit a una ventina di associazioni giunte a Roma dalle cinque Province. Nel Lazio saranno oltre 3.000 i completi con gli stemmi della Protezione Civile Regionale e 500 i kit antipioggia forniti al personale operativo. I kit comprendono abbigliamento e accessori estivi e invernali necessari a operare in sicurezza e al riconoscimento del personale nel corso delle operazioni di emergenza.
Premiate a Palazzo Valentini le Associazioni vincitrici dei bandi del "Piano Locale Giovani"
Premiate a Palazzo Valentini le Associazioni vincitrici dei bandi del "Piano Locale Giovani"
La Provincia continua a puntare sui giovani. Nella Sala della Pace di Palazzo Valentini il Presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, e l’assessore provinciale alle Politiche Giovanili, Patrizia Prestipino, hanno incontrato le Associazioni che hanno vinto i bandi riguardanti il Piano Locale Giovani, un progetto che mira a stimolare e valorizzare la creatività, la progettualità e la capacità di realizzazione nelle realtà giovanili del territorio provinciale.
A partire dal 2 novembre 2009 sono stati infatti pubblicati i bandi riguardanti le prime due annualità per un finanziamento complessivo di oltre 1 milione e 300mila euro. I Bandi hanno interessato le seguenti aree tematiche: Informazione, Inserimento dei giovani nella società, Fenomeni di emarginazione e devianza, Scambi socio culturali con paesi della Comunità Europea, Cultura, Prevenzione Sociale e Salute Pubblica, Spazi e ambiente urbano e Tutela ambientale.
Il 1 dicembre 2009 i bandi si sono chiusi e si è provveduto all’assegnazione dei contributi. Alcune aree tematiche non sono state assegnate e sono state rimesse a bando (la scadenza è prevista il 29 marzo).
''Questo progetto - ha spiegato Zingaretti - è importante perché abbiamo chiamato molti ragazzi e associazioni giovanili a pensare come creare nel campo della cultura e dell'ingegno. Questo nuovo incontro non deve essere un atto burocratico, ma l'inizio di un rapporto perché vogliamo dare ai ragazzi l'impressione che noi scommettiamo sulle nuove generazioni. Ora dovranno realizzare questi progetti, ne seguiremo lo sviluppo e tra un anno trarremo i bilanci ed eventualmente realizzeremo un nuovo bando''.
A consegnare gli attestati alle associazioni vincitrici del bando è stata l'assessore provinciale Patrizia Prestipino: "Oggi - ha dichiarato - si premiano l'ingegno, la creatività e l'impegno di tanti giovani. Abbiamo accolto i ragazzi vincitori per far sentire che le istituzioni sono loro vicine''.
Ecco l’elenco delle associazioni assegnatarie dei bandi: Ganesa Onlus, SpazioEtruria, Errore 404, Ideactiva, Libera Polis, Theatro Polare, Centro Culturale Laghetto, A Ruota Libera Onlus, Philos Psicologia e Società, Pro Loco dei Cinque Comuni di Madonna della Pace, Azimuth, Unione Giovani Indipendenti, Twain, Nbl – NoBorder Onlus, Circolo del Cinema ‘Luce a Cavallo’, Orizzonti Blu Italia, Ist. Musicale Collegium Artis, La Bussola, Giovani Insieme, @Informa, Fotografando Le Stelle, Studenti ed ex Studenti Cerveteri-Ladispoli, Centrale dell’Arte, Legamenti, Affabulazione, Frammenti Sonori, Il Flauto Magico, Il Salto, Ladi-Lab, Adynaton, Cooperativa Sociale Alkè, Aralia Swimming & Fitness Club, Pontedincontro, Mary Poppins, Giovani Soratte, Cittadini Informati.
PROMEMORIA 25 marzo 1957 - Alle 18:46 a Roma si firma il trattato istitutivo del Mercato comune europeo (MEC)
Alle 18:46 a Roma si firma il trattato istitutivo del Mercato comune europeo (MEC): ne fanno parte Germania Ovest, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo.
Il Mercato Europeo Comune (MEC) è il precursore dell'Unione europea.
Creato a Roma il 25 marzo 1957.
Previsto dai Trattati di Roma - entrati in vigore il 1º gennaio 1958 - ha conosciuto un periodo transitorio di dodici anni, conclusosi il 31 dicembre 1969. Il mercato comune europeo era l'area dei paesi della comunità europea su cui si realizza la libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali.
Dopo il fallimento di progetti di integrazione di più ampio respiro (come la CED), si scelse di continuare, in ottica funzionalista, a procedere con l'integrazione nel settore economico, meno soggetto alle resistenze dei governi nazionali. L'istituzione della CEE e del conseguente mercato unico si orientano in questo senso.
Il mercato comune si basa su quattro libertà (art. 3):
libera circolazione delle persone
libera circolazione dei servizi
libera circolazione delle merci
libera circolazione dei capitali
Esso ha creato uno spazio economico unificato, con condizioni di libera concorrenza tra le imprese e permettendo di ravvicinare le condizioni di scambio dei prodotti e dei servizi.
Nonostante l'eliminazione delle barriere tariffarie, avvenute in Europa già negli anni '60, negli anni '80 la circolazione delle merci ha continuato ad essere rallentata e ostacolata dalla presenza di barriere e vincoli di tipo non tariffario. Con il termine "costo della non Europa" ci si riferiva alla perdita di benessere sociale determinata dalla mancata eliminazione di tali vincoli. La presenza di barriere non tariffarie era legata alla persistenza, nei diversi Stati membri, di norme tecniche diverse, alla presenza di normative differenziate che riguardavano i trasporti e le regolamentazioni dei mercati di capitali, alla scarsa trasparenza delle procedure per gli appalti pubblici, che segmentavano la domanda gestita dagli Stati su base nazionale, e da altri ostacoli di carattere amministrativo e doganale.
24 marzo, 2010
Il presidente Zingaretti alla commemorazione dei martiri delle Fosse Ardeatin
Il presidente Zingaretti alla commemorazione dei martiri delle Fosse Ardeatine
Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti ha preso parte alla cerimonia di commemorazione dei martiri delle Fosse Ardeatine, di cui oggi ricorre il 66° anniversario.
"Le Fosse Ardeatine - ha detto Zingaretti - sono state tra gli eccidi più osceni compiuti dai nazisti nella nostra città". “È importante ricordare questo eccidio – ha aggiunto il presidente della Provincia – perché la memoria ha un grande valore educativo".
“Probabilmente - ha sottolineato Zingaretti – chi scelse questo luogo,ai margini della città e così nascosto per commettere l’eccidio, lo ha fatto anche nella speranza che si dimenticasse. Il fatto che dopo 66 anni con questa forza ed autorevolezza si è qui con tanti ragazzi e ragazze per non dimenticare, non soltanto è un atto dovuto ai martiri ma anche il segno di una sconfitta di chi ha compiuto l' eccidio”.
“Essere presenti oggi non può essere una parentesi cerimoniosa – ha concluso Zingaretti – ma deve essere supportata tutti i giorni da comportamenti coerenti in questo impegno della libertà e della democrazia".
Presso il sacrario Ardeatino il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti ed il sindaco della Capitale Gianni Alemanno hanno deposto una corona in ricordo delle vittime. Tra gli altri, erano presenti diversi componenti della Comunità ebraica di Roma, tra cui il presidente Riccardo Pacifici.
PROMEMORIA 24 marzo 1999 Italia/Francia - Nel tunnel del Monte Bianco un incidente scatena un incendio che causa 39 morti
Italia/Francia - Nel tunnel del Monte Bianco un incidente scatena un incendio che causa 39 morti.
Il 24 marzo 1999, un camion prende fuoco fermandosi dentro il tunnel. L'incendio, alimentato dalle materie combustibili presenti nel veicolo, è amplificato dall'effetto forno causato dal tunnel e in breve tempo raggiunge enormi proporzioni: i pompieri impiegheranno 53 ore per domarlo. 39 persone muoiono carbonizzate.
Cronologia degli avvenimenti [modifica]
10:46 Un camion prende fuoco dentro il tunnel
10:51 Scatta un primo allarme antincendio
10:55 Viene chiuso l'ingresso francese del tunnel
10:56 Anche l'ingresso italiano viene chiuso
10:58 I soccorsi vengono allertati
11:09 Arrivano i primi mezzi di soccorso
Ogni anno il 23 marzo molti motociclisti si riuniscono all'ingresso del tunnel, per ricordare un uomo, Pierlucio Tinazzi detto "Spadino", addetto alla sicurezza della TmB, che grazie alla sua moto ed al suo coraggio riusci a salvare dal rogo molte vite, ma sfortunatamente entrato nel tunnel l'ultima volta per salvare un camionista, perse la vita sopraffatto dalle fiamme.
Le conseguenze del dopo incidente
Dopo questi drammatici avvenimenti, il tunnel restò chiuso per tre anni e riaperto unicamente per le automobili il 9 marzo 2002, dopo lunghi lavori di riparazione e ristrutturazione (la volta, fortemente danneggiata, è stata completamente rifatta). Questi sono stati i principali interventi adottati dopo il rogo:
La creazione di nicchie ogni cento metri.
Un posto di soccorso è stato costruito nel centro del tunnel, con un veicolo attrezzato allo spegnimento delle fiamme e un gruppo di pompieri presenti in permanenza sul posto.
Costruzione di rifugi collegati ad una galleria d'evacuazione indipendente (sotto la carreggiata).
Costruzione di una sala di comando unica.
Le regole di utilizzo del tunnel sono state cambiate con l'unificazione delle due società concessionarie sotto una unica società, la GEIE (groupement europèen d'intéret èconomique). Sono stati costituiti dei gruppi di lavoro comuni italo-francesi per assicurare la gestione corrente e la sicurezza. È stata interdetta la circolazione ai mezzi che trasportano materiali pericolosi e ai veicoli inquinanti (dal peso superiore alle 3,5 tonnellate e euro 0); la velocità è stata notevolmente ridotta e la distanza di sicurezza tra i veicoli aumentata (150 m tra i veicoli in movimento e 100 m tra i veicoli fermi).
Le prime condanne [modifica]
Il tribunale di Bonneville (Alta Savoia) il 27 luglio 2005 ha emesso una prima sentenza. A conclusione di una lunga istruttoria, il giudice ha considerato che "la catastrofe poteva essere evitata".
Gerard Roncoli, il capo della sicurezza di competenza francese, è stato condannato a trenta mesi di prigione (con la condizionale).
Gilbert Degrave, l'autista del camion che ha originato l'incendio, è stato condannato a quattro mesi di prigione (con la condizionale)
Michel Charlet, il sindaco di Chamonix, è stato condannato a sei mesi di prigione e a 1.500,00 Euro d'ammenda.
23 marzo, 2010
Dalla Regione via libera a 1716 nuovi posti letto per anziani (Rsa)
Dalla Regione via libera a 1716 nuovi posti letto per anziani (Rsa)
La giunta regionale ha dato il via libera all'autorizzazione di 1.716 nuovi posti letto Rsa (residenza sanitaria assistita).
Il provvedimento amplia l'offerta assistenziale e punta a una minore ospedalizzazione investendo sulla medicina del territorio e andando incontro ai bisogni delle persone più fragili, in particolare anziani e non autosufficienti. Il potenziamento dei posti letto di Rsa consentirà migliore appropriatezza dell'offerta sanitaria e un consistente risparmio economico: dai 600-1000 euro al giorno per un posto letto per acuti in una clinica privata ai circa 100 euro per una Rsa - con partecipazione del 50% da parte della Regione.
Il metodo adottato è stato la distribuzione territoriale in relazione al fabbisogno ancora da soddisfare: i posti di Rsa sono stati determinati dalla proporzione tra quelli già esistenti e quelli necessari per raggiungere lo standard previsto dai parametri nazionali (2,5% popolazione oltre i 75 anni d'età).
Questi i posti residenza sanitaria assistita attivabili nel 2010 sul territorio del Lazio, divisi per Asl:
- Asl Rm/A: 120
- Asl Rm/B: 172
- Asl Rm/C: 0
- Asl RM/D: 180
- Asl RM/E: 118
- Asl RM/F: 160
- Asl RM/G: 100
- Asl RM/H: 160
Totale Roma e Provincia: 1010.
- Asl Viterbo: 50
- Asl Rieti: 115
- Asl Latina: 280
- Asl Frosinone: 261
PROMEMORIA 23 marzo 1944 Seconda guerra mondiale: intorno alle tre del pomeriggio esplode una bomba in Via Rasella a Roma
Seconda guerra mondiale: intorno alle tre del pomeriggio esplode una bomba in Via Rasella a Roma, uccidendo 33 soldati tedeschi in transito. Per rappresaglia il giorno dopo (vedi 24 marzo) le truppe tedesche compiranno l'eccidio delle Fosse Ardeatine.
L'attacco di via Rasella fu un atto di guerra[1] che ebbe luogo a Roma il 23 marzo del 1944, nel corso della seconda guerra mondiale, condotto dai partigiani dei Gruppi di azione patriottica contro un reparto di polizia SS tedesca di stanza nella città di Roma come forza di occupazione.
Inquadramento storico
1944: Artiglieria antiaerea tedesca nei pressi di Castel Sant'Angelo
L'attacco di via Rasella ed il successivo eccidio delle fosse Ardeatine, con le 335 vittime innocenti trucidate il 24 marzo 1944, rappresenta uno degli episodi più drammatici e sanguinosi dei nove mesi di occupazione tedesca della città di Roma.
Per meglio comprendere la vicenda è necessario inquadrarla nel contesto da cui essa trasse origine e nel quale si svolsero i fatti di sangue che sconvolsero la capitale, coinvolta nel secondo conflitto mondiale. Sorto all'indomani della caduta del regime fascista (25 luglio 1943), il governo Badoglio, aveva dichiarato unilateralmente Roma "città aperta" solo trenta ore[2] dopo il secondo bombardamento alleato che l'aveva sconvolta. L'attacco, eseguito da bombardieri statunitensi il 13 agosto 1943, aveva causato danni forse ancora maggiori del primo, che l'aveva colpita il 19 luglio: nei due bombardamenti morirono oltre 2.000 civili innocenti e parecchie altre migliaia rimasero feriti, senza casa e lavoro. In città venivano così a mancare servizi essenziali, mentre la fame si diffondeva e la capitale si faceva invivibile.
Gli Alleati avevano già chiarito prima ancora della caduta del regime fascista che la dichiarazione di "città aperta" del governo italiano - unilaterale e priva dei necessari requisiti di smilitarizzazione e verifica da parte di osservatori neutrali - non aveva alcun valore[3] e, non a caso, dopo i grandi bombardamenti dell'estate 1943, la città fu nuovamente bombardata altre 51 volte, sino alla liberazione il 4 giugno 1944[4].
Dopo l'8 settembre 1943, con l'armistizio di Cassibile e la fuga del re Vittorio Emanuele III e di Badoglio, la città si trovò ad essere direttamente zona di combattimento, questa volta con i tedeschi. Per la sua posizione strategica nei collegamenti fra nord e sud della penisola, il possesso delle sue strade e dei ponti sul Tevere diventa indispensabile per il piano del comandante tedesco in Italia - Albert Kesselring - di arrestare l'avanzata angloamericana su linee successive stabilite sull'Appennino. Così, dalla sera dell'8 settembre fino al pomeriggio del 10 le truppe di due divisioni tedesche rinforzate tentano di impadronirsi della città. Nei combattimenti di quei giorni - sostenuti dalle unità e i reparti del Corpo d'Armata Motocorazzato e della Difesa Capitale ai quali si unirono anche manipoli di privati cittadini - cadono circa 1.167 militari e oltre 120 civili[5]. Pesanti perdite vengono anche inflitte ai tedeschi, che riescono ad impadronirsi della città attraverso trattative con le autorità militari italiane e approfittando del caos all'interno di esse determinato dall'abbandono dei posti di comando da parte di gran parte dei politici e dei generali.[6]
Roma si trova in uno stato precario: la città è nominalmente sotto il controllo di polizia di reparti italiani privi d'armi pesanti al comando del generale Calvi di Bergolo, che tuttavia vengono disarmati e disciolti dai tedeschi pochi giorni dopo la sigla dell'accordo, approfittando pretestuosamente di un incidente fra soldati italiani e germanici. La città, quindi, nominalmente passa sotto il governo della Repubblica Sociale Italiana, costituito il 23 settembre 1943, ma l'effettivo controllo è del tutto nelle mani delle autorità militari tedesche, che intendono in questo modo sfruttarne in pieno politicamente e militarmente il grande valore. Nella città il clima politico e i sentimenti della popolazione si orientano subito in direzione antifascista ed antinazista, tanto che nonostante il fascio repubblicano costituito nella capitale fosse stato uno dei più importanti numericamente[7], esso rappresenta l'unico centro di raccolta dei pochi fascisti della capitale. Uno dei segnali tanto dello scollamento della città dal fascismo quanto dello strapotere tedesco è nel maggior tasso di renitenza alla leva registrato a Roma rispetto al resto della RSI[8], superiore del 15-20% alla media, mentre, secondo i dati dei Servizi segreti USA, solo il 2% dei cittadini romani si presenta spontaneamente alle chiamate al lavoro o alle armi imposte dai comandi del Reich[9].
La città si trova quindi stretta fra l'offesa dal cielo da parte alleata (concentrata soprattutto sulle vie d'accesso periferiche, in particolare le Vie Consolari), che si tramuta in un vero e proprio assedio, e l'oppressione dell'occupante germanico nonché la reazione fascista (che assume caratteristiche rabbiose per reazione all'apatia e allo scollamento della popolazione romana dal fascismo repubblicano). Fin dalla proclamazione dell'armistizio, inoltre, si creano gruppi attivi di antifascisti armati[10], in particolare quelli di ispirazione troskista ("Bandiera Rossa") e militare ("Centro X") agli ordini del maggiore Brandimarte [11] e del colonnello Montezemolo. La città inoltre è un crocevia dove tutte le principali organizzazioni di spionaggio dei belligeranti e le polizie dell'Asse si incrociano e si sovrappongono in una guerra segreta dai contorni tutt'ora oggetto di studio[12].
La situazione della popolazione, in larga parte avulsa dalla lotta in corso e desiderosa solo di "farla finita" nel minore tempo possibile, è drammatica[13]: la disperazione spinge alcuni ad ogni sorta di infamia e doppiogiochismo (ne è un egregio esempio l'ufficio di polizia guidato dal generale Umberto Presti, protagonista della più dura repressione da un lato, mentre sosteneva la nascente Resistenza dall'altro[14]), mentre un'altra parte della popolazione sviluppa via via sempre più fitte e capillari reti di solidarietà clandestine verso gli esponenti della Resistenza e nei confronti degli ebrei perseguitati dai nazisti e da gruppi di italiani antisemiti o semplicemente prezzolati[15].
I tedeschi, veri padroni della città, comprendono subito quale sia il valore politico di Roma, con la presenza del Vaticano e tentano di far fruttare propagandisticamente la dichiarazione solo formale ed unilaterale, non riconosciuta dagli alleati, di "città aperta" - emessa da un governo (quello Badoglio) che loro non riconoscono e che dall'ottobre 1943 è anche belligerante contro di essi - e, per quanto possibile, evitano un'intensa militarizzazione, facendo passare il grosso dei rifornimenti destinati alla Linea Gustav ai margini dell'Urbe[16], mantenendo all'interno della cerchia cittadina solo dei reparti di polizia, polizia militare (Feldgendarmerie) e SS-Polizei (Abt. IV e VI), nonché truppe di comando e servizi.
Lo sbarco di Anzio, tuttavia, cambia il quadro tattico e, il 22 gennaio 1944, l'intera provincia di Roma viene dichiarata "zona di operazioni" sotto la responsabilità del generale Eberhard von Mackensen, comandante della 14a Armata, un reduce dai rigori del fronte russo. Alle sue dipendenze è il comandante della piazza di Roma, tenente generale della Luftwaffe Kurt Mältzer. Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante del fronte meridionale, considera i due incapaci della «durezza brutale, forse anche ingiusta, ma necessaria nel quinto anno di guerra»[17] e, per questo, nomina capo della Gestapo di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell'ordine in città, l'ufficiale delle SS Herbert Kappler[18] già resosi protagonista nella capitale della pianificazione della liberazione di Benito Mussolini, e di due particolarmente tragiche e sanguinose offese alla città: la razzia del ghetto ebraico e la successiva deportazione, il 15 ottobre 1943 di 1.023 ebrei romani verso i Campi di sterminio.
La campagna di repressione avviata da Kappler, che pianifica frequenti rastrellamenti, arresta numerosi sospetti antifascisti ed organizza, in Via Tasso, un tristemente noto centro di detenzione e tortura, crea nella città un clima di terrore.
Nonostante ciò i GAP, formati da partigiani del partito comunista, attaccano i tedeschi numerose volte. Di rilievo tra le altre l'azione del 19 dicembre 1943, quando penetrano in una zona di alta sicurezza e fanno esplodere ordigni contro l'Hotel Flora, sede del Tribunale Militare germanico.
In reazione a queste operazioni le forze di polizia tedesche, italiane e le "bande" (o polizie private) formate da personale italiano ma al comando esclusivo dei tedeschi, lanciano una imponente campagna in fasi successive di rastrellamento della città, arrivando anche a violare le extraterritorialità vaticane, dove avevano trovato ricetto ed ospitalità centinaia di esponenti dell'antifascismo ed ebrei. Vengono decapitate le formazioni partigiane romane, in particolare "Bandiera Rossa" e il "Fronte Militare Clandestino", i cui esponenti - primo fra tutti il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, catturato il 10 gennaio 1944 - sono rinchiusi nel carcere di Regina Coeli e in altre prigioni naziste. Molto limitato - invece - è il successo contro le cellule comuniste, che restano salde.
Contemporaneamente l'arenarsi nella bonifica pontina dell'avanzata alleata getta nello sconforto la popolazione romana, che immaginava una rapida occupazione alleata - e la conseguente fine di quella tedesca, della fame e della paura - ma che ora vede la città trasformarsi in prima retrovia del fronte.
Nelle ore immediatamente successive lo sbarco di Anzio, viene organizzata un'unica azione partigiana di rilievo militare - oltre ai consueti sabotaggi e alle azioni di spionaggio - da parte delle agguerrite formazioni dei Castelli: l'occupazione di un ponte sulla Via Appia, in attesa dell'avanzata alleata verso Roma, praticamente indifesa. Tuttavia l'irresolutezza del comandante alleato - John P. Lucas - dà ai tedeschi il tempo necessario per rastrellare una quantità sufficiente di truppe (anche italiane della RSI) per poter accerchiare - ed assediare - la testa di sbarco. Il reparto partigiano occupante il ponte è costretto a sciogliersi sotto la minaccia dell'afflusso di rinforzi tedeschi, e la strada per Roma resta chiusa all'avanzata alleata[19].
È in questo quadro che, il Partito Comunista - che ha organizzato la propria struttura militare clandestina a Roma, dividendola in otto settori, ciascuno affidato a un Gruppo di Azione Patriottica, sin dagli ultimi mesi del 1943 e che è l'unica formazione del CNL ad avere ancora capacità operative a Roma - si giunge alla determinazione di reagire con le armi alla spirale di violenza scatenata da Kappler e di attaccare militarmente l'occupante. I due comandanti dei GAP centrali, dai quali dipende la rete clandestina, Franco Calamandrei detto "Cola" e Carlo Salinari detto "Spartaco" avranno così un ruolo decisivo nella preparazione dell'attacco che si decide di condurre contro un reparto della polizia tedesca.
Ordine di operazione
I partigiani che eseguirono l'attacco facevano parte dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) che dipendevano dalla Giunta Militare, a sua volta dipendente dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), i cui responsabili erano: il socialista Sandro Pertini, il comunista Giorgio Amendola e Riccardo Bauer del Partito d'Azione. L'ordine di eseguire l'attacco fu dato dai responsabili della Giunta militare. Anni dopo sia Pertini che Bauer dichiararono di non essere a conoscenza della preparazione dell'imboscata e che l'ordine venne dato da Amendola senza che fossero stati avvertiti. Amendola confermò tutto e rivendicò alla sua persona la responsabilità di aver dato l'ordine operativo ai gappisti.
Circostanze degli eventi
La data scelta per l'attacco fu significativamente quella del 23 marzo 1944, venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento. Per l'occasione i fascisti - sotto la guida del segretario locale del Partito fascista repubblicano Giuseppe Pizzirani - avevano programmato una solenne commemorazione da tenersi presso il Teatro Adriano, in piazza Cavour. L'adunata fu annullata per ordine del comandante militare tedesco della piazza di Roma, il tenente generale della Luftwaffe Kurt Mältzer, timoroso del possibile scoppio di incidenti e deciso ad evitarli. Infatti, in seguito all'azione partigiana gappista in Via Tomacelli del 10 marzo, ove fu attaccato un corteo di fascisti, il comando tedesco vietò ai fascisti repubblicani di svolgere manifestazioni pubbliche. L'attacco in via Rasella avrebbe dovuto svolgersi in concomitanza con un'altra azione da compiersi al Teatro Adriano, in occasione della suddetta manifestazione, ma in seguito allo spostamento di quest'ultima al chiuso, presso il Ministero delle Corporazioni in Via Veneto, l'azione stessa fu annullata.
L'attacco
Via Rasella (aprile 2007)
Già nei giorni precedenti il 23 marzo il Comando Centrale Garibaldino aveva notato il transito di una compagnia tedesca di SS polizei che dopo essere entrata da Porta del Popolo provenendo dal Flaminio, imboccava via del Babuino dirigendosi verso Via del Tritone. Qui, costeggiando l'imbocco del traforo, all'epoca occupato dagli sfollati, entrava in via Rasella e, proseguendo, giungeva al Viminale (che era stato sede del Ministero dell'Interno e dal dicembre del 1943 era stato trasferito a Salò) dove era acquartierata.
Per alcuni giorni, quindi, furono studiati gli spostamenti di questi soldati, che percorrevano in tenuta di guerra le strade di Roma cantando, preceduti e seguiti da pattuglie motorizzate munite di mitragliatrice pesante.
Si trattava della 11a compagnia del III battaglione dell'SS Polizei Regiment Bozen composta da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, altoatesini/sudtirolesi arruolati nella polizia in seguito all'occupazione tedesca dopo il 1° ottobre 1943 delle province di Bolzano, Trento e Belluno (riunite nel cosiddetto "Alpenvorland" sul quale la sovranità della RSI era meno che nominale).[20]
Altri reparti dello stesso reggimento (che come l'11a compagnia erano impiegati nella guerra anti-partigiana, nella caccia agli ebrei, agli antifascisti, ai renitenti alla leve militari e del lavoro, ecc.) operarono nel Bellunese, nella Valle del Biois, in Istria, ecc. e furono processati e condannati alla fine della guerra da tribunali militari Alleati per aver compiuto crimini di guerra.
Risultò quindi, in seguito ai diversi appostamenti, che tale compagnia percorreva quotidianamente lo stesso tratto di strada alla stessa ora (verso le due del pomeriggio) e che il punto migliore per attaccarla sarebbe stata appunto via Rasella, una strada in salita poco frequentata, scelta, oltre che per creare un imbottigliamento alla compagnia, anche per la scarsa presenza di botteghe e portoni, quindi per lo scarso transito di civili.
Per l'esecuzione dell'attacco furono impiegati i GAP centrali che già dal periodo successivo all'8 settembre 1943 avevano compiuto numerose azioni di guerriglia urbana nella zona del centro storico. Numerosi quindi furono i partigiani che avrebbero partecipato all'azione, dei quali uno di essi, travestito da spazzino, avrebbe dovuto innescare un ordigno nascosto all'interno di un carrettino della nettezza urbana, mentre gli altri, ad esplosione avvenuta, avrebbero dovuto attaccare con pistole e bombe a mano la compagnia.
Il compito di far brillare l'esplosivo fu affidato al partigiano Rosario Bentivegna (“Paolo”), studente in medicina, il quale il 23 marzo si avviò travestito da spazzino dal deposito gappista nei pressi del Colosseo verso via Rasella, con il carretto contenente l'ordigno. Dopo essersi appostato ed aver atteso circa due ore in più, rispetto alla consueta ora di transito della compagnia nella via, alle 15.52 accese con il fornello di una pipa la miccia, preparata per far avvenire l'esplosione dopo circa 50 secondi, tempo necessario ai tedeschi per percorrere il tratto di strada compreso tra un punto a valle usato per la segnalazione, ed il carretto, posizionato in alto davanti a Palazzo Tittoni.
Poco dopo l'esplosione due squadre dei GAP, una composta da sette uomini l'altra da sei, sotto il comando di Franco Calamandrei detto "Cola" e Carlo Salinari detto "Spartaco", lanciarono bombe a mano e fecero fuoco sui sopravvissuti all'esplosione.
Modalità di azione
Il Salinari ha in seguito testimoniato che i partigiani erano disposti in questo modo: Bentivegna accanto al carretto, Carla Capponi (che aveva un impermeabile nascosto, da mettere addosso allo stesso Bentivegna per coprirne la divisa da spazzino, ed una pistola sotto i vestiti), in cima alla via; Fernando Vitagliano, Francesco Curreli, Raul Falcioni, Guglielmo Blasi ed altri, vicino al Traforo; nei pressi Silvio Serra; all'angolo di via del Boccaccio si trovava Franco Calamandrei. Alcuni altri gappisti erano sistemati per coprirne la fuga.
Calamandrei si tolse il copricapo (segnale per avvisare Bentivegna che i tedeschi si stavano avvicinando e che quindi doveva accendere la miccia ed allontanarsi velocemente). Immediatamente dopo l'esplosione gli altri partigiani raggiunsero Calamandrei per eseguire il lancio delle bombe a mano e colpire i militari con colpi di pistola.
Nell'immediatezza dell'evento rimasero uccisi 32 militari tedeschi e 110 rimasero feriti, oltre a 2 vittime civili. Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero, mentre era in corso la preparazione della rappresaglia, che fu dunque calcolata in base a 33 vittime germaniche. Nei giorni seguenti sarebbero deceduti altri 9 militari feriti, portando così a 42 il totale dei caduti.[21]
Controversie
Nonostante la Corte di Cassazione abbia catalogato la strage di via Rasella come un "legittimo atto di guerra", affermando anche che è "lesiva dell'onorabilità politica e personale" di Bentivegna "la non rispondenza a verità di circostanze non marginali come l'ulteriore parificazione tra partigiani e nazisti con riferimento all'attentato di via Rasella e l'assimilazione tra Erich Priebke e Bentivegna", non è stato raggiunto un giudizio storiografico unanime sull’attacco.
Si elencano dunque qui di seguito le principali controversie aperte nel corso degli anni e che la sentenza del 2007 ha sanzionato. Le controversie riguardano principalmente due ipotesi circa le finalità dell'attacco, più alcune polemiche "minori" sulle modalità, la scelta dell'obbiettivo e il successivo comportamento dei GAP e della Resistenza romana.
Questa voce o sezione di storia è ritenuta non neutrale.
Motivo: La sezione, per avvalorare una presunta notorietà del pericolo di rappresaglie di massa da operarsi a Roma da parte tedesca prima dell'attacco di via Rasella, e della ancor più presunta "legalità" della proporzione di 10 a 1 "secondo la legge di guerra" (nozione destituita di qualsiasi fondamento fattuale, anche prima della seconda guerra mondiale), si avvale di un richiamo a Bruno Spampanato. Va chiaramente indicata al lettore la reale situazione e va spiegato chi fosse Spampanato, fascista collaboratore dei nazisti, direttore de "Il Messaggero" nella Repubblica di Salò e tra i protagonisti della preparazione della bozza di Costituzione della repubblica collaborazionista dell'occupante nazista, "ben sovvenzionato dai tedeschi e creatore di stazioni radio milanesi come Radio Fante in Via Rovani, con personale Eiar espulso dal Partito Fascista Repubblicano, a favore di formazioni fasciste non ortodosse come le SS italiane, la Legione Autonoma «Muti», la X Mas, della quale in particolare egli sarà Capo Ufficio Stampa" (Diego Verdegiglio, "La TV di Mussolini - Sperimentazioni televisive nel Ventennio fascista", Castelvecchi, 2003, ISBN 88-7615-043-9, pag. 134).dopo risoluzione "problema Spampanato" proposta da Mastrangelo, adeguo template P --Piero Montesacro 14:40, 27 nov 2008 (CET) Va inoltre fornito, per gli stessi motivi citati, il contesto completo della citazione di Jo di Benigno, per verificare a quale periodo si riferisca esattamente.
Per contribuire, partecipa alla discussione. Non rimuovere questo avviso finché la disputa non è risolta.
La principale tesi sostenuta in sede revisionista è quella della "rappresaglia cercata". È noto infatti che i tedeschi non avessero mai proceduto a rappresaglie di massa a Roma, pur procedendo ad una violenta repressione ed a molte condanne a morte sebbene, secondo alcuni autori[23] fosse altrettanto noto quale fosse il loro modus operandi solito (il famigerato "dieci a uno"[24]). Nella situazione di complessiva apatia della maggior parte della popolazione di Roma nei confronti dei tedeschi e dei fascisti repubblicani, il comando dei GAP avrebbe deciso di intraprendere un'operazione di impatto talmente grave da scuotere l'intera città, per farla sollevare contro le forze dell'Asse, alla luce del fallimento della controffensiva tedesca contro la testa di Ponte Alleata ad Anzio, contando su una rapida avanzata angloamericana su Roma. Chi contesta questa tesi, fa rilevare che la scelta di Via Rasella fosse stato solo un ripiego dopo aver dovuto rinunciare ad un altro obbiettivo, non tedesco, ma fascista repubblicano, dunque non era possibile che si cercasse la rappresaglia tedesca a tutti i costi (i tedeschi non si interessavano alle questioni fra italiani, che anzi trovavano utili per la loro politica di divide et impera). Inoltre, secondo i critici di questa tesi, i gappisti non erano affatto a conoscenza della politica tedesca del "dieci contro uno"[25], oppure confidavano nel fatto che i germanici avrebbero continuato a sopportare gli attacchi senza procedere a sanguinose rappresaglie contro innocenti[26], preoccupati com'erano di mantenere buoni rapporti con il Vaticano a fini propagandistici, onde far ricadere solo sugli Alleati la responsabilità delle sofferenze, dei lutti e delle distruzioni subite dalla capitale italiana.
Una tesi di matrice "complottista" invece - sostenuta da Giorgio Pisanò, Pierangelo Maurizio[27] ed altri autori[28] - è che, ben conoscendo le modalità con cui i nazisti selezionavano i fucilandi per le rappresaglie, il PCdI avrebbe fatto arrestare progressivamente la maggior parte degli esponenti delle reti clandestine non comuniste o dissidenti [29] attraverso una ben orchestrata campagna di delazioni, e quindi abbia proceduto all'attacco perché costoro finissero fucilati per rappresaglia[30]. A sostegno di tale tesi viene anche citata l'atroce fine toccata al direttore di Regina Coeli, Donato Carretta, linciato brutalmente durante il processo a Pietro Caruso, sebbene il suo ruolo nel fornire le vittime ai nazisti sarebbe stato addirittura di ostruzionismo: per i sostenitori di questa tesi complottista, la fine di Caretta sarebbe servita a "tappare la bocca" all'uomo che conosceva il segreto della compilazione delle liste dei fucilandi: assieme all'uomo, infatti, sparirono anche migliaia di documenti del carcere, bruciati dalla folla (abilmente guidata, secondo i sostenitori di tale tesi). Inoltre dalle liste furono espunti pressoché tutti i pochi comunisti in carcere, normalmente con la scusa dello "stato di salute" (le convenzioni vietano infatti di giustiziare infermi o malati). Un criterio che tuttavia non fu applicato nel caso - un esempio fra molti - del colonnello Montezemolo, fucilato nonostante fosse gravemente sofferente ed invalido per le torture subite a via Tasso[31]. Chi contesta questa tesi, oltre a muovere gli stessi rilievi della tesi precedente (ovvero che non era affatto scontato che i tedeschi avrebbero proceduto alla rappresaglia e, quand'anche, i gappisti non erano a conoscenza dei loro usi di guerra) afferma che questa tesi prevede una malafede nell'agire dei partigiani che non trova riscontri o prove, e che è esplicitamente ed ufficialmente negata dai riconoscimenti al Valore per gli autori dell'attacco e dalle successive sentenze giudiziarie sul caso.
Le controversie sulla modalità e sull'obbiettivo si orientano essenzialmente su questi punti:
L'attacco inutile: i 156 uomini della 11ª compagnia del III battaglione Bozen al comando del maggiore Helmut Dobbrick non erano nulla più che un reparto di polizia[32] (ancorché dipendente dalle SS) formato da riservisti altoatesini che avevano optato per il Reich (tuttavia alcuni erano ancora cittadini italiani, secondo l'Andrae), impiegato a Roma con compiti di semplice vigilanza urbana[33], in quel momento impegnato in periodo addestrativo[34]. Pertanto il risultato dell'attacco sarebbe stato militarmente inutile[35]. A questa obiezione si risponde che quel reparto era inquadrato in un reggimento, il Bozen, utilizzato anche in operazioni di rastrellamento e di grande polizia contro i partigiani in Alta Italia. Inoltre, il Codice penale militare di guerra italiano in vigore dal 1 ottobre 1941, [36] riportava: "Il presente codice comprende: 1° sotto la denominazione di militari, quelli dell'Esercito, della Marina, della Aeronautica, della Guardia di finanza, della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, della Polizia dell'Africa Italiana e le persone che a norma di legge acquistano la qualità di militari;" quindi anche le forze di polizia italiane, secondo la legge italiana allora in vigore, erano militari; di conseguenza simili reparti di paesi nemici potevano essere considerati obbiettivi legittimi di azioni di guerra, per tutti gli italiani che riconoscessero il governo monarchico insediato a Bari, in quanto occupanti militarmente il territorio nazionale. Pertanto non solo era obbiettivo legittimo ma anche opportuno, perché costringeva il comando tedesco a distogliere altre forze dal fronte per presidiare la città, creando un clima di insicurezza e di sfiducia nei tedeschi in quella che doveva essere una "città di retrovia". Furono coinvolti anche civili italiani: l'esplosione non uccise solo trentatré militari tedeschi, ma anche due civili italiani (di cui un bambino di 13 anni), ferendone anche altri quattro (secondo altre fonti le vittime furono 7, o addirittura 10. La Cassazione tuttavia ha stabilito il numero in due[37]. ). Ai famigliari dei due civili morti nell'attacco non è mai stato riconosciuto alcun risarcimento dalla magistratura italiana, in quanto l'attacco è stato successivamente catalogato come legittimo atto di guerra, a riprova di quanto sopra citato.
La rappresaglia si poteva evitare: il massacro delle Fosse Ardeatine si sarebbe potuto forse evitare (secondo quanto affermato dallo stesso Kappler che lo diresse) se gli esecutori materiali dell'attacco si fossero consegnati alle autorità tedesche, come nel noto caso di Salvo D'Acquisto, che pur innocente si era accusato responsabile della morte di alcuni soldati tedeschi e secondo le leggi internazionali[senza fonte]; secondo lo storico Paolo Simoncelli vi sarebbe effettivamente stata una richiesta di consegna[38] prima di effettuare il massacro, ma non è dato sapere se si attesero per intero le canoniche 24 ore prima della rappresaglia.
L'attacco pregiudicò la Resistenza romana e Roma stessa: secondo questa tesi, ben lungi dal migliorare le condizioni della popolazione romana, l'attacco inferocì tedeschi e fascisti che, per questo, accrebbero la repressione sulla Resistenza e sui civili. Inoltre, sempre secondo tale tesi, i proclami partigiani circa l'azione condotta contro truppe tedesche "in assetto di guerra" all'interno della "città aperta" avrebbero fornito agli Alleati il pretesto per inasprire la campagna aerea contro l'Urbe, che nelle settimane successive sarebbe stata intensificata fino ad un intervento del Vaticano, sollecitato dai tedeschi. Secondo Giorgio Pisanò, subito dopo la notizia dell'agguato, e in seguito alla diffusione della notizia sugli organi della stampa partigiana (L'Unità e l'Avanti!) circa un attacco ad una "formazione tedesca in pieno assetto di guerra", gli Alleati ritennero che da parte tedesca fosse stato infranto lo status di "città aperta" con l'introduzione di reparti dotati di armi pesanti all'interno della cerchia urbana. Questo li spinse ad intensificare i bombardamenti dei quartieri periferici della città e degli scali ferroviari romani[39]. Tale polemica è tuttavia contraddetta pienamente dall'analisi dei fatti accertati:
Mai gli Alleati accettarono lo status di "città aperta" per Roma, e mai riconobbero che i tedeschi lo rispettassero[40]; semmai, assunsero cautele per evitare di colpire il Vaticano e le sue proprietà ma, ciò nonostante, nella notte sul 2 marzo 1944, ventuno giorni prima dell'attacco di via Rasella, alcuni ordigni sganciati da aerei alleati caddero persino entro il perimetro del Vaticano.
Da un esame della letteratura specialistica sulla campagna aerea Alleata su Roma, e dall'ampio insieme disponibile di comunicazioni al massimo livello intercorse in materia tra le autorità politiche e militari alleate, non solo non emerge alcun riferimento diretto o significativo all'attacco di via Rasella e al successivo Eccidio della Fosse Ardeatine, ma neanche alcun accenno alle attività o alla propaganda della Resistenza italiana. In realtà vi fu una intensificazione dei bombardamenti a partire da oltre due mesi prima l'attacco di via Rasella, a seguito dello sbarco di Anzio, ossia da fine febbraio (anche in risposta ai furiosi ma sfortunati contrattacchi tedeschi alla testa di ponte alleata di Anzio nella zona di Cisterna). Nel corso di tale campagna aerea, oltre a colpire persino il Vaticano il 2 marzo, l'aviazione alleata operò il 14 marzo un grave e sanguinoso bombardamento a bassa quota contro il quartiere Prenestino (senza alcun obbiettivo militare), e fece diverse centinaia di morti civili il 19 marzo, durante un bombardamento apparentemente condotto contro la caserma Macao a Castro Pretorio (senza vittime tra i soldati tedeschi), colpendo anche il vicino Policlinico Umberto I, ove si registrarono decine di vittime anche tra i degenti. Il Vaticano chiese agli Alleati una tregua della guerra aerea per il 12 marzo, in occasione di un previsto raduno religioso in piazza San Pietro, ma la richiesta fu respinta, così come lo fu, il 17 marzo, anche un'ennesima richiesta di salvaguardia dell'Urbe avanzata da Pietro Badoglio dal cosiddetto "Regno del Sud". Non vi è invece notizia di gravi attacchi aerei condotti dopo l'attacco di via Rasella: le ultime incursioni aeree significative su Roma avvennero infatti entro il 19 marzo del 1944, 4 giorni prima dell'attacco di via Rasella[41]; il 30 marzo 1944 una comunicazione del Quartier Generale della MAAF (Mediterranean Allied Air Forces, le Forze Aeree alleate del teatro di guerra del Mediterraneo) al Ministero dell'Aeronautica britannico confermava - rendendo evidente che ci si riferisse anche ai giorni precedenti (rispondeva infatti a varie comunicazioni riferite ai bombardamenti occorsi sino al 19 marzo) - che "un bombardamento di Roma che si discosti appena dagli scali di smistamento ferroviario è proibito"[42][43]. Va inoltre notato che della presunta influenza della stampa clandestina nei processi decisionali alleati sulla guerra aerea condotta su Roma non vi è traccia nella bibliografia consultata[44].
Le affermazioni di Pisanò, peraltro, coincidono con quelle della propaganda nazifascista dell'epoca dei fatti. Il 26 marzo 1944, infatti, il Comando tedesco di Roma fece pubblicare su "Il Messaggero" una dichiarazione nella quale assicurava - falsamente - che stava per essere completato lo sgombero di truppe e materiali militari dalla città di Roma, denunciando l'opportunismo degli assalti aerei terroristici alla capitale, rilanciando una trattativa per la dichiarazione di Roma "città aperta" nell'interesse "di Roma e per il beneficio della popolazione civile". Ancora, la dichiarazione faceva riferimento agli "attacchi codardi" del 23 marzo (l'attacco di via Rasella) e ammoniva a sfruttare i "generosi provvedimenti" tedeschi, pena la messa in atto di "misure militari che si considerano necessarie nell'interesse della conduzione delle operazioni in Italia"[45]. Nel documento tedesco l'effettiva implementazione mai manifestatasi dello status di "città aperta", l'attacco di via Rasella e la successiva strage delle Fosse Ardeatine "vengono presentati in una concatenazione strumentale e faziosa di causa ed effetto, volta a sottolineare come il destino della capitale dipenda, oltre che «dalla condotta degli angloamericani», dal comportamento «della stessa popolazione di Roma»"[46], quasi i tedeschi fossero terze parti e non coinvolti in pieno in una guerra totale. La Dichiarazione fatta pubblicare dai tedeschi, proprio per il suo valore politico e propagandistico, fu immediatamente posta all'attenzione dei governi e dei comandi Alleati, che si astennero da allora in poi dal colpire duramente entro la cerchia urbana di Roma, pur riservandosi di attaccare ancora, come fecero sino alla liberazione della città, le infrastrutture viarie e ferroviarie.[47] Anche in questo caso, le ipotesi di una trattativa volta a riconoscere lo status di "città aperta" furono respinte dagli Alleati, che continuarono la loro offensiva aerea - per altro senza intensificarla rispetto al mese precedente l'attacco di via Rasella - per l'elementare imperativo tattico derivante dall'inattesa resistenza opposta dai tedeschi alla loro avanzata in Italia, che gli Alleati attribuirono anche all'uso delle infrastrutture cittadine, attraverso le quali i tedeschi continuavano ad alimentare le loro forze, allora impegnate sui fronti di Anzio e di Cassino.[48][49]
Tali questioni si posero fin dal processo per le Fosse Ardeatine a carico del comandante Kappler presso il Tribunale Militare di Roma, il 20 luglio 1948. Rosario Bentivegna, presente in aula in qualità di testimone, fu contestato da alcuni famigliari dei fucilati delle Fosse Ardeatine, i quali lo accusarono di non aver evitato la rappresaglia consegnandosi ai tedeschi. Bentivegna si difese immediatamente affermando che i tedeschi non richiesero la consegna degli autori dell’attacco, e che non era certo che la sua consegna avrebbe evitato la rappresaglia. La sentenza della Cassazione del 2007 ha confermato il fatto che nessuna richiesta di consegna degli autori dell'attacco per evitare la rappresaglia fosse stata affissa dalle autorità di occupazione.
Successivamente la questione di riaprì nel giugno del 1980, quando Marco Pannella affermò pubblicamente che, secondo le informazioni da lui raccolte, «gran parte dei quadri antifascisti e anche comunisti non direttamente organizzati dal PCI e lo stesso comando ufficiale della resistenza romana erano contrari all'ipotesi dell'azione terroristica»; sempre Pannella definì via Rasella come «un atto di terrorismo» paragonandolo ad un’azione delle Brigate Rosse[50]. Ne nacque una feroce querelle, con Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, che a quell’azione aveva partecipato, in prima linea. I protagonisti finirono in tribunale, mentre la polemica dura tuttora.
Nel 1998 l’associazione dei familiari delle vittime di via Rasella, con l’alto patrocinio della Regione Autonoma del Trentino-Alto Adige, ha presentato ricorso contro i partigiani Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, autori materiali della strage. La magistratura non ha riconosciuto alcun diritto di risarcimento ed ha definitivamente confermato la legittimità dell’azione partigiana.
Riepilogo delle sentenze
Con sentenza del 20 luglio 1948, emessa contro Kappler e altri, il Tribunale militare di Roma escludeva la qualifica di rappresaglia all'eccidio delle Fosse Ardeatine, identificato invece come "omicidio continuato"[51], negando però nel contempo la natura di legittima azione di guerra dell'attacco, in quanto non commesso da "legittimi belligeranti". L'azione partigiana, infatti, sarebbe stata priva dei requisiti previsti dalla Convenzione dell'Aja del 18 ottobre 1907 per qualificare i civili come legittimi belligeranti, ossia l'organizzazione in corpi di volontari che portino apertamente le armi, siano sottoposti ad un comandante responsabile per i subordinati e dotati di segno distintivo fisso riconoscibile a distanza (una divisa). Il Tribunale Supremo Militare, decidendo sul ricorso presentato da Kappler contro la condanna, ribaltava però tale definizione, sostenendo la natura di legittimi belligeranti degli autori dell'attacco.
Con la sentenza n. 3053 del 19 luglio 1957, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, si pronunciarono in tema di risarcimento del danno richiesto dalle vittime civili dell'attacco di via Rasella, stabilendo che «la lotta partigiana è stata considerata dalla legislazione italiana quale legittima attività di guerra», con conseguente improponibilità dell'azione risarcitoria proposta.
Con l'ordinanza del 16 aprile 1998, il giudice per le indagini preliminari di Roma disponeva l'archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, iniziato a seguito di una denuncia presentata da alcuni parenti delle vittime civili dell'attacco. Il Giudice escludeva la qualificazione dell'atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l'estinzione del reato a seguito dell'amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi "per motivi di guerra". Decidendo con sentenza n.1560/99 sul ricorso presentato da Bentivegna, Balsamo e dalla Capponi, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ribadiva la natura di legittimo atto di guerra dell'attacco di Via Rasella, inquadrabile ai sensi del decreto legislativo luogotenenziale n. 194 del 1945, successivo all'amnistia, che ha escluso la natura di reato, inserendola tra gli atti di guerra ad ogni operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione fascista. La legittimità dell'azione, per la Suprema Corte, deve essere pertanto valutata nel suo complesso, senza che sia possibile scinderne le conseguenze a carico dei militari tedeschi che ne costituivano l'obiettivo da quelle coinvolgenti i civili che ne rimasero vittima, in rapporto alla sua natura di "azione di guerra".
Il 7 agosto 2007 la Cassazione ha confermato la condanna al risarcimento inflitta dalla Corte d'appello di Milano al quotidiano Il Giornale per diffamazione ai danni di Rosario Bentivegna[52][53]. La Corte, partendo dalla qualificazione dell'attacco come legittimo atto di guerra rivolto a colpire esclusivamente i militari occupanti, ha ritenuto che alcune affermazioni contenute in articoli pubblicati dal quotidiano milanese nel 1996, per i Supremi Giudici tendenti a parificare le responsabilità degli esecutori dell'attacco di Via Rasella e dei comandi nazisti nella causazione della strage delle Fosse Ardeatine, erano gravemente lesive dell'onorabilità personale e politica del Bentivegna. Le affermazioni del Giornale furono:
che il battaglione Bozen fosse costituito interamente da cittadini italiani, mentre per la Cassazione facendo parte dell'esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica.
che i componenti del Bozen fossero "vecchi militari disarmati", mentre per la Cassazione essi erano soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e "machine pistolen".
che le vittime civili fossero sette, mentre per la Cassazione nessuno mette più in discussione che furono due.
che dopo l'attacco erano stati affissi manifesti in cui si intimava ai responsabili dell'attacco di consegnarsi per evitare una rappresaglia ma, per la Corte l'asserzione trova puntuale smentita nel fatto che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine era iniziata circa 21 ore dopo l'attacco, e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si tenesse nascosta la notizia di Via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta[54].
Il 22 luglio 2009 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di Elena Bentivegna (figlia di Carla Capponi e Rosario Bentivegna) contro il quotidiano Il Tempo che aveva pubblicato un articolo dove gli autori dell'attacco di via Rasella venivano definiti "massacratori di civili". La sentenza ha stabilito che l'epiteto utilizzato è lesivo della dignità dei partigiani e per questo diffamatorio, in quanto quello di via Rasella fu "legittimo atto di guerra contro il nemico occupante".[55]
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