23 marzo, 2010

PROMEMORIA 23 marzo 1944 Seconda guerra mondiale: intorno alle tre del pomeriggio esplode una bomba in Via Rasella a Roma


Seconda guerra mondiale: intorno alle tre del pomeriggio esplode una bomba in Via Rasella a Roma, uccidendo 33 soldati tedeschi in transito. Per rappresaglia il giorno dopo (vedi 24 marzo) le truppe tedesche compiranno l'eccidio delle Fosse Ardeatine.
L'attacco di via Rasella fu un atto di guerra[1] che ebbe luogo a Roma il 23 marzo del 1944, nel corso della seconda guerra mondiale, condotto dai partigiani dei Gruppi di azione patriottica contro un reparto di polizia SS tedesca di stanza nella città di Roma come forza di occupazione.

Inquadramento storico

1944: Artiglieria antiaerea tedesca nei pressi di Castel Sant'Angelo
L'attacco di via Rasella ed il successivo eccidio delle fosse Ardeatine, con le 335 vittime innocenti trucidate il 24 marzo 1944, rappresenta uno degli episodi più drammatici e sanguinosi dei nove mesi di occupazione tedesca della città di Roma.
Per meglio comprendere la vicenda è necessario inquadrarla nel contesto da cui essa trasse origine e nel quale si svolsero i fatti di sangue che sconvolsero la capitale, coinvolta nel secondo conflitto mondiale. Sorto all'indomani della caduta del regime fascista (25 luglio 1943), il governo Badoglio, aveva dichiarato unilateralmente Roma "città aperta" solo trenta ore[2] dopo il secondo bombardamento alleato che l'aveva sconvolta. L'attacco, eseguito da bombardieri statunitensi il 13 agosto 1943, aveva causato danni forse ancora maggiori del primo, che l'aveva colpita il 19 luglio: nei due bombardamenti morirono oltre 2.000 civili innocenti e parecchie altre migliaia rimasero feriti, senza casa e lavoro. In città venivano così a mancare servizi essenziali, mentre la fame si diffondeva e la capitale si faceva invivibile.
Gli Alleati avevano già chiarito prima ancora della caduta del regime fascista che la dichiarazione di "città aperta" del governo italiano - unilaterale e priva dei necessari requisiti di smilitarizzazione e verifica da parte di osservatori neutrali - non aveva alcun valore[3] e, non a caso, dopo i grandi bombardamenti dell'estate 1943, la città fu nuovamente bombardata altre 51 volte, sino alla liberazione il 4 giugno 1944[4].
Dopo l'8 settembre 1943, con l'armistizio di Cassibile e la fuga del re Vittorio Emanuele III e di Badoglio, la città si trovò ad essere direttamente zona di combattimento, questa volta con i tedeschi. Per la sua posizione strategica nei collegamenti fra nord e sud della penisola, il possesso delle sue strade e dei ponti sul Tevere diventa indispensabile per il piano del comandante tedesco in Italia - Albert Kesselring - di arrestare l'avanzata angloamericana su linee successive stabilite sull'Appennino. Così, dalla sera dell'8 settembre fino al pomeriggio del 10 le truppe di due divisioni tedesche rinforzate tentano di impadronirsi della città. Nei combattimenti di quei giorni - sostenuti dalle unità e i reparti del Corpo d'Armata Motocorazzato e della Difesa Capitale ai quali si unirono anche manipoli di privati cittadini - cadono circa 1.167 militari e oltre 120 civili[5]. Pesanti perdite vengono anche inflitte ai tedeschi, che riescono ad impadronirsi della città attraverso trattative con le autorità militari italiane e approfittando del caos all'interno di esse determinato dall'abbandono dei posti di comando da parte di gran parte dei politici e dei generali.[6]
Roma si trova in uno stato precario: la città è nominalmente sotto il controllo di polizia di reparti italiani privi d'armi pesanti al comando del generale Calvi di Bergolo, che tuttavia vengono disarmati e disciolti dai tedeschi pochi giorni dopo la sigla dell'accordo, approfittando pretestuosamente di un incidente fra soldati italiani e germanici. La città, quindi, nominalmente passa sotto il governo della Repubblica Sociale Italiana, costituito il 23 settembre 1943, ma l'effettivo controllo è del tutto nelle mani delle autorità militari tedesche, che intendono in questo modo sfruttarne in pieno politicamente e militarmente il grande valore. Nella città il clima politico e i sentimenti della popolazione si orientano subito in direzione antifascista ed antinazista, tanto che nonostante il fascio repubblicano costituito nella capitale fosse stato uno dei più importanti numericamente[7], esso rappresenta l'unico centro di raccolta dei pochi fascisti della capitale. Uno dei segnali tanto dello scollamento della città dal fascismo quanto dello strapotere tedesco è nel maggior tasso di renitenza alla leva registrato a Roma rispetto al resto della RSI[8], superiore del 15-20% alla media, mentre, secondo i dati dei Servizi segreti USA, solo il 2% dei cittadini romani si presenta spontaneamente alle chiamate al lavoro o alle armi imposte dai comandi del Reich[9].
La città si trova quindi stretta fra l'offesa dal cielo da parte alleata (concentrata soprattutto sulle vie d'accesso periferiche, in particolare le Vie Consolari), che si tramuta in un vero e proprio assedio, e l'oppressione dell'occupante germanico nonché la reazione fascista (che assume caratteristiche rabbiose per reazione all'apatia e allo scollamento della popolazione romana dal fascismo repubblicano). Fin dalla proclamazione dell'armistizio, inoltre, si creano gruppi attivi di antifascisti armati[10], in particolare quelli di ispirazione troskista ("Bandiera Rossa") e militare ("Centro X") agli ordini del maggiore Brandimarte [11] e del colonnello Montezemolo. La città inoltre è un crocevia dove tutte le principali organizzazioni di spionaggio dei belligeranti e le polizie dell'Asse si incrociano e si sovrappongono in una guerra segreta dai contorni tutt'ora oggetto di studio[12].
La situazione della popolazione, in larga parte avulsa dalla lotta in corso e desiderosa solo di "farla finita" nel minore tempo possibile, è drammatica[13]: la disperazione spinge alcuni ad ogni sorta di infamia e doppiogiochismo (ne è un egregio esempio l'ufficio di polizia guidato dal generale Umberto Presti, protagonista della più dura repressione da un lato, mentre sosteneva la nascente Resistenza dall'altro[14]), mentre un'altra parte della popolazione sviluppa via via sempre più fitte e capillari reti di solidarietà clandestine verso gli esponenti della Resistenza e nei confronti degli ebrei perseguitati dai nazisti e da gruppi di italiani antisemiti o semplicemente prezzolati[15].

I tedeschi, veri padroni della città, comprendono subito quale sia il valore politico di Roma, con la presenza del Vaticano e tentano di far fruttare propagandisticamente la dichiarazione solo formale ed unilaterale, non riconosciuta dagli alleati, di "città aperta" - emessa da un governo (quello Badoglio) che loro non riconoscono e che dall'ottobre 1943 è anche belligerante contro di essi - e, per quanto possibile, evitano un'intensa militarizzazione, facendo passare il grosso dei rifornimenti destinati alla Linea Gustav ai margini dell'Urbe[16], mantenendo all'interno della cerchia cittadina solo dei reparti di polizia, polizia militare (Feldgendarmerie) e SS-Polizei (Abt. IV e VI), nonché truppe di comando e servizi.
Lo sbarco di Anzio, tuttavia, cambia il quadro tattico e, il 22 gennaio 1944, l'intera provincia di Roma viene dichiarata "zona di operazioni" sotto la responsabilità del generale Eberhard von Mackensen, comandante della 14a Armata, un reduce dai rigori del fronte russo. Alle sue dipendenze è il comandante della piazza di Roma, tenente generale della Luftwaffe Kurt Mältzer. Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante del fronte meridionale, considera i due incapaci della «durezza brutale, forse anche ingiusta, ma necessaria nel quinto anno di guerra»[17] e, per questo, nomina capo della Gestapo di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell'ordine in città, l'ufficiale delle SS Herbert Kappler[18] già resosi protagonista nella capitale della pianificazione della liberazione di Benito Mussolini, e di due particolarmente tragiche e sanguinose offese alla città: la razzia del ghetto ebraico e la successiva deportazione, il 15 ottobre 1943 di 1.023 ebrei romani verso i Campi di sterminio.
La campagna di repressione avviata da Kappler, che pianifica frequenti rastrellamenti, arresta numerosi sospetti antifascisti ed organizza, in Via Tasso, un tristemente noto centro di detenzione e tortura, crea nella città un clima di terrore.
Nonostante ciò i GAP, formati da partigiani del partito comunista, attaccano i tedeschi numerose volte. Di rilievo tra le altre l'azione del 19 dicembre 1943, quando penetrano in una zona di alta sicurezza e fanno esplodere ordigni contro l'Hotel Flora, sede del Tribunale Militare germanico.
In reazione a queste operazioni le forze di polizia tedesche, italiane e le "bande" (o polizie private) formate da personale italiano ma al comando esclusivo dei tedeschi, lanciano una imponente campagna in fasi successive di rastrellamento della città, arrivando anche a violare le extraterritorialità vaticane, dove avevano trovato ricetto ed ospitalità centinaia di esponenti dell'antifascismo ed ebrei. Vengono decapitate le formazioni partigiane romane, in particolare "Bandiera Rossa" e il "Fronte Militare Clandestino", i cui esponenti - primo fra tutti il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, catturato il 10 gennaio 1944 - sono rinchiusi nel carcere di Regina Coeli e in altre prigioni naziste. Molto limitato - invece - è il successo contro le cellule comuniste, che restano salde.
Contemporaneamente l'arenarsi nella bonifica pontina dell'avanzata alleata getta nello sconforto la popolazione romana, che immaginava una rapida occupazione alleata - e la conseguente fine di quella tedesca, della fame e della paura - ma che ora vede la città trasformarsi in prima retrovia del fronte.
Nelle ore immediatamente successive lo sbarco di Anzio, viene organizzata un'unica azione partigiana di rilievo militare - oltre ai consueti sabotaggi e alle azioni di spionaggio - da parte delle agguerrite formazioni dei Castelli: l'occupazione di un ponte sulla Via Appia, in attesa dell'avanzata alleata verso Roma, praticamente indifesa. Tuttavia l'irresolutezza del comandante alleato - John P. Lucas - dà ai tedeschi il tempo necessario per rastrellare una quantità sufficiente di truppe (anche italiane della RSI) per poter accerchiare - ed assediare - la testa di sbarco. Il reparto partigiano occupante il ponte è costretto a sciogliersi sotto la minaccia dell'afflusso di rinforzi tedeschi, e la strada per Roma resta chiusa all'avanzata alleata[19].
È in questo quadro che, il Partito Comunista - che ha organizzato la propria struttura militare clandestina a Roma, dividendola in otto settori, ciascuno affidato a un Gruppo di Azione Patriottica, sin dagli ultimi mesi del 1943 e che è l'unica formazione del CNL ad avere ancora capacità operative a Roma - si giunge alla determinazione di reagire con le armi alla spirale di violenza scatenata da Kappler e di attaccare militarmente l'occupante. I due comandanti dei GAP centrali, dai quali dipende la rete clandestina, Franco Calamandrei detto "Cola" e Carlo Salinari detto "Spartaco" avranno così un ruolo decisivo nella preparazione dell'attacco che si decide di condurre contro un reparto della polizia tedesca.

Ordine di operazione

I partigiani che eseguirono l'attacco facevano parte dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) che dipendevano dalla Giunta Militare, a sua volta dipendente dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), i cui responsabili erano: il socialista Sandro Pertini, il comunista Giorgio Amendola e Riccardo Bauer del Partito d'Azione. L'ordine di eseguire l'attacco fu dato dai responsabili della Giunta militare. Anni dopo sia Pertini che Bauer dichiararono di non essere a conoscenza della preparazione dell'imboscata e che l'ordine venne dato da Amendola senza che fossero stati avvertiti. Amendola confermò tutto e rivendicò alla sua persona la responsabilità di aver dato l'ordine operativo ai gappisti.

Circostanze degli eventi

La data scelta per l'attacco fu significativamente quella del 23 marzo 1944, venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento. Per l'occasione i fascisti - sotto la guida del segretario locale del Partito fascista repubblicano Giuseppe Pizzirani - avevano programmato una solenne commemorazione da tenersi presso il Teatro Adriano, in piazza Cavour. L'adunata fu annullata per ordine del comandante militare tedesco della piazza di Roma, il tenente generale della Luftwaffe Kurt Mältzer, timoroso del possibile scoppio di incidenti e deciso ad evitarli. Infatti, in seguito all'azione partigiana gappista in Via Tomacelli del 10 marzo, ove fu attaccato un corteo di fascisti, il comando tedesco vietò ai fascisti repubblicani di svolgere manifestazioni pubbliche. L'attacco in via Rasella avrebbe dovuto svolgersi in concomitanza con un'altra azione da compiersi al Teatro Adriano, in occasione della suddetta manifestazione, ma in seguito allo spostamento di quest'ultima al chiuso, presso il Ministero delle Corporazioni in Via Veneto, l'azione stessa fu annullata.

L'attacco
Via Rasella (aprile 2007)
Già nei giorni precedenti il 23 marzo il Comando Centrale Garibaldino aveva notato il transito di una compagnia tedesca di SS polizei che dopo essere entrata da Porta del Popolo provenendo dal Flaminio, imboccava via del Babuino dirigendosi verso Via del Tritone. Qui, costeggiando l'imbocco del traforo, all'epoca occupato dagli sfollati, entrava in via Rasella e, proseguendo, giungeva al Viminale (che era stato sede del Ministero dell'Interno e dal dicembre del 1943 era stato trasferito a Salò) dove era acquartierata.
Per alcuni giorni, quindi, furono studiati gli spostamenti di questi soldati, che percorrevano in tenuta di guerra le strade di Roma cantando, preceduti e seguiti da pattuglie motorizzate munite di mitragliatrice pesante.
Si trattava della 11a compagnia del III battaglione dell'SS Polizei Regiment Bozen composta da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, altoatesini/sudtirolesi arruolati nella polizia in seguito all'occupazione tedesca dopo il 1° ottobre 1943 delle province di Bolzano, Trento e Belluno (riunite nel cosiddetto "Alpenvorland" sul quale la sovranità della RSI era meno che nominale).[20]
Altri reparti dello stesso reggimento (che come l'11a compagnia erano impiegati nella guerra anti-partigiana, nella caccia agli ebrei, agli antifascisti, ai renitenti alla leve militari e del lavoro, ecc.) operarono nel Bellunese, nella Valle del Biois, in Istria, ecc. e furono processati e condannati alla fine della guerra da tribunali militari Alleati per aver compiuto crimini di guerra.
Risultò quindi, in seguito ai diversi appostamenti, che tale compagnia percorreva quotidianamente lo stesso tratto di strada alla stessa ora (verso le due del pomeriggio) e che il punto migliore per attaccarla sarebbe stata appunto via Rasella, una strada in salita poco frequentata, scelta, oltre che per creare un imbottigliamento alla compagnia, anche per la scarsa presenza di botteghe e portoni, quindi per lo scarso transito di civili.
Per l'esecuzione dell'attacco furono impiegati i GAP centrali che già dal periodo successivo all'8 settembre 1943 avevano compiuto numerose azioni di guerriglia urbana nella zona del centro storico. Numerosi quindi furono i partigiani che avrebbero partecipato all'azione, dei quali uno di essi, travestito da spazzino, avrebbe dovuto innescare un ordigno nascosto all'interno di un carrettino della nettezza urbana, mentre gli altri, ad esplosione avvenuta, avrebbero dovuto attaccare con pistole e bombe a mano la compagnia.
Il compito di far brillare l'esplosivo fu affidato al partigiano Rosario Bentivegna (“Paolo”), studente in medicina, il quale il 23 marzo si avviò travestito da spazzino dal deposito gappista nei pressi del Colosseo verso via Rasella, con il carretto contenente l'ordigno. Dopo essersi appostato ed aver atteso circa due ore in più, rispetto alla consueta ora di transito della compagnia nella via, alle 15.52 accese con il fornello di una pipa la miccia, preparata per far avvenire l'esplosione dopo circa 50 secondi, tempo necessario ai tedeschi per percorrere il tratto di strada compreso tra un punto a valle usato per la segnalazione, ed il carretto, posizionato in alto davanti a Palazzo Tittoni.

Poco dopo l'esplosione due squadre dei GAP, una composta da sette uomini l'altra da sei, sotto il comando di Franco Calamandrei detto "Cola" e Carlo Salinari detto "Spartaco", lanciarono bombe a mano e fecero fuoco sui sopravvissuti all'esplosione.

Modalità di azione

Il Salinari ha in seguito testimoniato che i partigiani erano disposti in questo modo: Bentivegna accanto al carretto, Carla Capponi (che aveva un impermeabile nascosto, da mettere addosso allo stesso Bentivegna per coprirne la divisa da spazzino, ed una pistola sotto i vestiti), in cima alla via; Fernando Vitagliano, Francesco Curreli, Raul Falcioni, Guglielmo Blasi ed altri, vicino al Traforo; nei pressi Silvio Serra; all'angolo di via del Boccaccio si trovava Franco Calamandrei. Alcuni altri gappisti erano sistemati per coprirne la fuga.
Calamandrei si tolse il copricapo (segnale per avvisare Bentivegna che i tedeschi si stavano avvicinando e che quindi doveva accendere la miccia ed allontanarsi velocemente). Immediatamente dopo l'esplosione gli altri partigiani raggiunsero Calamandrei per eseguire il lancio delle bombe a mano e colpire i militari con colpi di pistola.
Nell'immediatezza dell'evento rimasero uccisi 32 militari tedeschi e 110 rimasero feriti, oltre a 2 vittime civili. Dei feriti, uno morì poco dopo il ricovero, mentre era in corso la preparazione della rappresaglia, che fu dunque calcolata in base a 33 vittime germaniche. Nei giorni seguenti sarebbero deceduti altri 9 militari feriti, portando così a 42 il totale dei caduti.[21]

Controversie

Nonostante la Corte di Cassazione abbia catalogato la strage di via Rasella come un "legittimo atto di guerra", affermando anche che è "lesiva dell'onorabilità politica e personale" di Bentivegna "la non rispondenza a verità di circostanze non marginali come l'ulteriore parificazione tra partigiani e nazisti con riferimento all'attentato di via Rasella e l'assimilazione tra Erich Priebke e Bentivegna", non è stato raggiunto un giudizio storiografico unanime sull’attacco.
Si elencano dunque qui di seguito le principali controversie aperte nel corso degli anni e che la sentenza del 2007 ha sanzionato. Le controversie riguardano principalmente due ipotesi circa le finalità dell'attacco, più alcune polemiche "minori" sulle modalità, la scelta dell'obbiettivo e il successivo comportamento dei GAP e della Resistenza romana.

Questa voce o sezione di storia è ritenuta non neutrale.
Motivo: La sezione, per avvalorare una presunta notorietà del pericolo di rappresaglie di massa da operarsi a Roma da parte tedesca prima dell'attacco di via Rasella, e della ancor più presunta "legalità" della proporzione di 10 a 1 "secondo la legge di guerra" (nozione destituita di qualsiasi fondamento fattuale, anche prima della seconda guerra mondiale), si avvale di un richiamo a Bruno Spampanato. Va chiaramente indicata al lettore la reale situazione e va spiegato chi fosse Spampanato, fascista collaboratore dei nazisti, direttore de "Il Messaggero" nella Repubblica di Salò e tra i protagonisti della preparazione della bozza di Costituzione della repubblica collaborazionista dell'occupante nazista, "ben sovvenzionato dai tedeschi e creatore di stazioni radio milanesi come Radio Fante in Via Rovani, con personale Eiar espulso dal Partito Fascista Repubblicano, a favore di formazioni fasciste non ortodosse come le SS italiane, la Legione Autonoma «Muti», la X Mas, della quale in particolare egli sarà Capo Ufficio Stampa" (Diego Verdegiglio, "La TV di Mussolini - Sperimentazioni televisive nel Ventennio fascista", Castelvecchi, 2003, ISBN 88-7615-043-9, pag. 134).dopo risoluzione "problema Spampanato" proposta da Mastrangelo, adeguo template P --Piero Montesacro 14:40, 27 nov 2008 (CET) Va inoltre fornito, per gli stessi motivi citati, il contesto completo della citazione di Jo di Benigno, per verificare a quale periodo si riferisca esattamente.
Per contribuire, partecipa alla discussione. Non rimuovere questo avviso finché la disputa non è risolta.
La principale tesi sostenuta in sede revisionista è quella della "rappresaglia cercata". È noto infatti che i tedeschi non avessero mai proceduto a rappresaglie di massa a Roma, pur procedendo ad una violenta repressione ed a molte condanne a morte sebbene, secondo alcuni autori[23] fosse altrettanto noto quale fosse il loro modus operandi solito (il famigerato "dieci a uno"[24]). Nella situazione di complessiva apatia della maggior parte della popolazione di Roma nei confronti dei tedeschi e dei fascisti repubblicani, il comando dei GAP avrebbe deciso di intraprendere un'operazione di impatto talmente grave da scuotere l'intera città, per farla sollevare contro le forze dell'Asse, alla luce del fallimento della controffensiva tedesca contro la testa di Ponte Alleata ad Anzio, contando su una rapida avanzata angloamericana su Roma. Chi contesta questa tesi, fa rilevare che la scelta di Via Rasella fosse stato solo un ripiego dopo aver dovuto rinunciare ad un altro obbiettivo, non tedesco, ma fascista repubblicano, dunque non era possibile che si cercasse la rappresaglia tedesca a tutti i costi (i tedeschi non si interessavano alle questioni fra italiani, che anzi trovavano utili per la loro politica di divide et impera). Inoltre, secondo i critici di questa tesi, i gappisti non erano affatto a conoscenza della politica tedesca del "dieci contro uno"[25], oppure confidavano nel fatto che i germanici avrebbero continuato a sopportare gli attacchi senza procedere a sanguinose rappresaglie contro innocenti[26], preoccupati com'erano di mantenere buoni rapporti con il Vaticano a fini propagandistici, onde far ricadere solo sugli Alleati la responsabilità delle sofferenze, dei lutti e delle distruzioni subite dalla capitale italiana.
Una tesi di matrice "complottista" invece - sostenuta da Giorgio Pisanò, Pierangelo Maurizio[27] ed altri autori[28] - è che, ben conoscendo le modalità con cui i nazisti selezionavano i fucilandi per le rappresaglie, il PCdI avrebbe fatto arrestare progressivamente la maggior parte degli esponenti delle reti clandestine non comuniste o dissidenti [29] attraverso una ben orchestrata campagna di delazioni, e quindi abbia proceduto all'attacco perché costoro finissero fucilati per rappresaglia[30]. A sostegno di tale tesi viene anche citata l'atroce fine toccata al direttore di Regina Coeli, Donato Carretta, linciato brutalmente durante il processo a Pietro Caruso, sebbene il suo ruolo nel fornire le vittime ai nazisti sarebbe stato addirittura di ostruzionismo: per i sostenitori di questa tesi complottista, la fine di Caretta sarebbe servita a "tappare la bocca" all'uomo che conosceva il segreto della compilazione delle liste dei fucilandi: assieme all'uomo, infatti, sparirono anche migliaia di documenti del carcere, bruciati dalla folla (abilmente guidata, secondo i sostenitori di tale tesi). Inoltre dalle liste furono espunti pressoché tutti i pochi comunisti in carcere, normalmente con la scusa dello "stato di salute" (le convenzioni vietano infatti di giustiziare infermi o malati). Un criterio che tuttavia non fu applicato nel caso - un esempio fra molti - del colonnello Montezemolo, fucilato nonostante fosse gravemente sofferente ed invalido per le torture subite a via Tasso[31]. Chi contesta questa tesi, oltre a muovere gli stessi rilievi della tesi precedente (ovvero che non era affatto scontato che i tedeschi avrebbero proceduto alla rappresaglia e, quand'anche, i gappisti non erano a conoscenza dei loro usi di guerra) afferma che questa tesi prevede una malafede nell'agire dei partigiani che non trova riscontri o prove, e che è esplicitamente ed ufficialmente negata dai riconoscimenti al Valore per gli autori dell'attacco e dalle successive sentenze giudiziarie sul caso.
Le controversie sulla modalità e sull'obbiettivo si orientano essenzialmente su questi punti:
L'attacco inutile: i 156 uomini della 11ª compagnia del III battaglione Bozen al comando del maggiore Helmut Dobbrick non erano nulla più che un reparto di polizia[32] (ancorché dipendente dalle SS) formato da riservisti altoatesini che avevano optato per il Reich (tuttavia alcuni erano ancora cittadini italiani, secondo l'Andrae), impiegato a Roma con compiti di semplice vigilanza urbana[33], in quel momento impegnato in periodo addestrativo[34]. Pertanto il risultato dell'attacco sarebbe stato militarmente inutile[35]. A questa obiezione si risponde che quel reparto era inquadrato in un reggimento, il Bozen, utilizzato anche in operazioni di rastrellamento e di grande polizia contro i partigiani in Alta Italia. Inoltre, il Codice penale militare di guerra italiano in vigore dal 1 ottobre 1941, [36] riportava: "Il presente codice comprende: 1° sotto la denominazione di militari, quelli dell'Esercito, della Marina, della Aeronautica, della Guardia di finanza, della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, della Polizia dell'Africa Italiana e le persone che a norma di legge acquistano la qualità di militari;" quindi anche le forze di polizia italiane, secondo la legge italiana allora in vigore, erano militari; di conseguenza simili reparti di paesi nemici potevano essere considerati obbiettivi legittimi di azioni di guerra, per tutti gli italiani che riconoscessero il governo monarchico insediato a Bari, in quanto occupanti militarmente il territorio nazionale. Pertanto non solo era obbiettivo legittimo ma anche opportuno, perché costringeva il comando tedesco a distogliere altre forze dal fronte per presidiare la città, creando un clima di insicurezza e di sfiducia nei tedeschi in quella che doveva essere una "città di retrovia". Furono coinvolti anche civili italiani: l'esplosione non uccise solo trentatré militari tedeschi, ma anche due civili italiani (di cui un bambino di 13 anni), ferendone anche altri quattro (secondo altre fonti le vittime furono 7, o addirittura 10. La Cassazione tuttavia ha stabilito il numero in due[37]. ). Ai famigliari dei due civili morti nell'attacco non è mai stato riconosciuto alcun risarcimento dalla magistratura italiana, in quanto l'attacco è stato successivamente catalogato come legittimo atto di guerra, a riprova di quanto sopra citato.
La rappresaglia si poteva evitare: il massacro delle Fosse Ardeatine si sarebbe potuto forse evitare (secondo quanto affermato dallo stesso Kappler che lo diresse) se gli esecutori materiali dell'attacco si fossero consegnati alle autorità tedesche, come nel noto caso di Salvo D'Acquisto, che pur innocente si era accusato responsabile della morte di alcuni soldati tedeschi e secondo le leggi internazionali[senza fonte]; secondo lo storico Paolo Simoncelli vi sarebbe effettivamente stata una richiesta di consegna[38] prima di effettuare il massacro, ma non è dato sapere se si attesero per intero le canoniche 24 ore prima della rappresaglia.
L'attacco pregiudicò la Resistenza romana e Roma stessa: secondo questa tesi, ben lungi dal migliorare le condizioni della popolazione romana, l'attacco inferocì tedeschi e fascisti che, per questo, accrebbero la repressione sulla Resistenza e sui civili. Inoltre, sempre secondo tale tesi, i proclami partigiani circa l'azione condotta contro truppe tedesche "in assetto di guerra" all'interno della "città aperta" avrebbero fornito agli Alleati il pretesto per inasprire la campagna aerea contro l'Urbe, che nelle settimane successive sarebbe stata intensificata fino ad un intervento del Vaticano, sollecitato dai tedeschi. Secondo Giorgio Pisanò, subito dopo la notizia dell'agguato, e in seguito alla diffusione della notizia sugli organi della stampa partigiana (L'Unità e l'Avanti!) circa un attacco ad una "formazione tedesca in pieno assetto di guerra", gli Alleati ritennero che da parte tedesca fosse stato infranto lo status di "città aperta" con l'introduzione di reparti dotati di armi pesanti all'interno della cerchia urbana. Questo li spinse ad intensificare i bombardamenti dei quartieri periferici della città e degli scali ferroviari romani[39]. Tale polemica è tuttavia contraddetta pienamente dall'analisi dei fatti accertati:
Mai gli Alleati accettarono lo status di "città aperta" per Roma, e mai riconobbero che i tedeschi lo rispettassero[40]; semmai, assunsero cautele per evitare di colpire il Vaticano e le sue proprietà ma, ciò nonostante, nella notte sul 2 marzo 1944, ventuno giorni prima dell'attacco di via Rasella, alcuni ordigni sganciati da aerei alleati caddero persino entro il perimetro del Vaticano.
Da un esame della letteratura specialistica sulla campagna aerea Alleata su Roma, e dall'ampio insieme disponibile di comunicazioni al massimo livello intercorse in materia tra le autorità politiche e militari alleate, non solo non emerge alcun riferimento diretto o significativo all'attacco di via Rasella e al successivo Eccidio della Fosse Ardeatine, ma neanche alcun accenno alle attività o alla propaganda della Resistenza italiana. In realtà vi fu una intensificazione dei bombardamenti a partire da oltre due mesi prima l'attacco di via Rasella, a seguito dello sbarco di Anzio, ossia da fine febbraio (anche in risposta ai furiosi ma sfortunati contrattacchi tedeschi alla testa di ponte alleata di Anzio nella zona di Cisterna). Nel corso di tale campagna aerea, oltre a colpire persino il Vaticano il 2 marzo, l'aviazione alleata operò il 14 marzo un grave e sanguinoso bombardamento a bassa quota contro il quartiere Prenestino (senza alcun obbiettivo militare), e fece diverse centinaia di morti civili il 19 marzo, durante un bombardamento apparentemente condotto contro la caserma Macao a Castro Pretorio (senza vittime tra i soldati tedeschi), colpendo anche il vicino Policlinico Umberto I, ove si registrarono decine di vittime anche tra i degenti. Il Vaticano chiese agli Alleati una tregua della guerra aerea per il 12 marzo, in occasione di un previsto raduno religioso in piazza San Pietro, ma la richiesta fu respinta, così come lo fu, il 17 marzo, anche un'ennesima richiesta di salvaguardia dell'Urbe avanzata da Pietro Badoglio dal cosiddetto "Regno del Sud". Non vi è invece notizia di gravi attacchi aerei condotti dopo l'attacco di via Rasella: le ultime incursioni aeree significative su Roma avvennero infatti entro il 19 marzo del 1944, 4 giorni prima dell'attacco di via Rasella[41]; il 30 marzo 1944 una comunicazione del Quartier Generale della MAAF (Mediterranean Allied Air Forces, le Forze Aeree alleate del teatro di guerra del Mediterraneo) al Ministero dell'Aeronautica britannico confermava - rendendo evidente che ci si riferisse anche ai giorni precedenti (rispondeva infatti a varie comunicazioni riferite ai bombardamenti occorsi sino al 19 marzo) - che "un bombardamento di Roma che si discosti appena dagli scali di smistamento ferroviario è proibito"[42][43]. Va inoltre notato che della presunta influenza della stampa clandestina nei processi decisionali alleati sulla guerra aerea condotta su Roma non vi è traccia nella bibliografia consultata[44].
Le affermazioni di Pisanò, peraltro, coincidono con quelle della propaganda nazifascista dell'epoca dei fatti. Il 26 marzo 1944, infatti, il Comando tedesco di Roma fece pubblicare su "Il Messaggero" una dichiarazione nella quale assicurava - falsamente - che stava per essere completato lo sgombero di truppe e materiali militari dalla città di Roma, denunciando l'opportunismo degli assalti aerei terroristici alla capitale, rilanciando una trattativa per la dichiarazione di Roma "città aperta" nell'interesse "di Roma e per il beneficio della popolazione civile". Ancora, la dichiarazione faceva riferimento agli "attacchi codardi" del 23 marzo (l'attacco di via Rasella) e ammoniva a sfruttare i "generosi provvedimenti" tedeschi, pena la messa in atto di "misure militari che si considerano necessarie nell'interesse della conduzione delle operazioni in Italia"[45]. Nel documento tedesco l'effettiva implementazione mai manifestatasi dello status di "città aperta", l'attacco di via Rasella e la successiva strage delle Fosse Ardeatine "vengono presentati in una concatenazione strumentale e faziosa di causa ed effetto, volta a sottolineare come il destino della capitale dipenda, oltre che «dalla condotta degli angloamericani», dal comportamento «della stessa popolazione di Roma»"[46], quasi i tedeschi fossero terze parti e non coinvolti in pieno in una guerra totale. La Dichiarazione fatta pubblicare dai tedeschi, proprio per il suo valore politico e propagandistico, fu immediatamente posta all'attenzione dei governi e dei comandi Alleati, che si astennero da allora in poi dal colpire duramente entro la cerchia urbana di Roma, pur riservandosi di attaccare ancora, come fecero sino alla liberazione della città, le infrastrutture viarie e ferroviarie.[47] Anche in questo caso, le ipotesi di una trattativa volta a riconoscere lo status di "città aperta" furono respinte dagli Alleati, che continuarono la loro offensiva aerea - per altro senza intensificarla rispetto al mese precedente l'attacco di via Rasella - per l'elementare imperativo tattico derivante dall'inattesa resistenza opposta dai tedeschi alla loro avanzata in Italia, che gli Alleati attribuirono anche all'uso delle infrastrutture cittadine, attraverso le quali i tedeschi continuavano ad alimentare le loro forze, allora impegnate sui fronti di Anzio e di Cassino.[48][49]
Tali questioni si posero fin dal processo per le Fosse Ardeatine a carico del comandante Kappler presso il Tribunale Militare di Roma, il 20 luglio 1948. Rosario Bentivegna, presente in aula in qualità di testimone, fu contestato da alcuni famigliari dei fucilati delle Fosse Ardeatine, i quali lo accusarono di non aver evitato la rappresaglia consegnandosi ai tedeschi. Bentivegna si difese immediatamente affermando che i tedeschi non richiesero la consegna degli autori dell’attacco, e che non era certo che la sua consegna avrebbe evitato la rappresaglia. La sentenza della Cassazione del 2007 ha confermato il fatto che nessuna richiesta di consegna degli autori dell'attacco per evitare la rappresaglia fosse stata affissa dalle autorità di occupazione.
Successivamente la questione di riaprì nel giugno del 1980, quando Marco Pannella affermò pubblicamente che, secondo le informazioni da lui raccolte, «gran parte dei quadri antifascisti e anche comunisti non direttamente organizzati dal PCI e lo stesso comando ufficiale della resistenza romana erano contrari all'ipotesi dell'azione terroristica»; sempre Pannella definì via Rasella come «un atto di terrorismo» paragonandolo ad un’azione delle Brigate Rosse[50]. Ne nacque una feroce querelle, con Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, che a quell’azione aveva partecipato, in prima linea. I protagonisti finirono in tribunale, mentre la polemica dura tuttora.
Nel 1998 l’associazione dei familiari delle vittime di via Rasella, con l’alto patrocinio della Regione Autonoma del Trentino-Alto Adige, ha presentato ricorso contro i partigiani Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, autori materiali della strage. La magistratura non ha riconosciuto alcun diritto di risarcimento ed ha definitivamente confermato la legittimità dell’azione partigiana.

Riepilogo delle sentenze

Con sentenza del 20 luglio 1948, emessa contro Kappler e altri, il Tribunale militare di Roma escludeva la qualifica di rappresaglia all'eccidio delle Fosse Ardeatine, identificato invece come "omicidio continuato"[51], negando però nel contempo la natura di legittima azione di guerra dell'attacco, in quanto non commesso da "legittimi belligeranti". L'azione partigiana, infatti, sarebbe stata priva dei requisiti previsti dalla Convenzione dell'Aja del 18 ottobre 1907 per qualificare i civili come legittimi belligeranti, ossia l'organizzazione in corpi di volontari che portino apertamente le armi, siano sottoposti ad un comandante responsabile per i subordinati e dotati di segno distintivo fisso riconoscibile a distanza (una divisa). Il Tribunale Supremo Militare, decidendo sul ricorso presentato da Kappler contro la condanna, ribaltava però tale definizione, sostenendo la natura di legittimi belligeranti degli autori dell'attacco.
Con la sentenza n. 3053 del 19 luglio 1957, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, si pronunciarono in tema di risarcimento del danno richiesto dalle vittime civili dell'attacco di via Rasella, stabilendo che «la lotta partigiana è stata considerata dalla legislazione italiana quale legittima attività di guerra», con conseguente improponibilità dell'azione risarcitoria proposta.
Con l'ordinanza del 16 aprile 1998, il giudice per le indagini preliminari di Roma disponeva l'archiviazione del procedimento penale a carico di Rosario Bentivegna, Carla Capponi e Pasquale Balsamo, iniziato a seguito di una denuncia presentata da alcuni parenti delle vittime civili dell'attacco. Il Giudice escludeva la qualificazione dell'atto come legittima azione di guerra, ravvisando tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage, altresì rilevando tuttavia l'estinzione del reato a seguito dell'amnistia prevista dal decreto 5 aprile 1944 per tutti i reati commessi "per motivi di guerra". Decidendo con sentenza n.1560/99 sul ricorso presentato da Bentivegna, Balsamo e dalla Capponi, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ribadiva la natura di legittimo atto di guerra dell'attacco di Via Rasella, inquadrabile ai sensi del decreto legislativo luogotenenziale n. 194 del 1945, successivo all'amnistia, che ha escluso la natura di reato, inserendola tra gli atti di guerra ad ogni operazione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione fascista. La legittimità dell'azione, per la Suprema Corte, deve essere pertanto valutata nel suo complesso, senza che sia possibile scinderne le conseguenze a carico dei militari tedeschi che ne costituivano l'obiettivo da quelle coinvolgenti i civili che ne rimasero vittima, in rapporto alla sua natura di "azione di guerra".
Il 7 agosto 2007 la Cassazione ha confermato la condanna al risarcimento inflitta dalla Corte d'appello di Milano al quotidiano Il Giornale per diffamazione ai danni di Rosario Bentivegna[52][53]. La Corte, partendo dalla qualificazione dell'attacco come legittimo atto di guerra rivolto a colpire esclusivamente i militari occupanti, ha ritenuto che alcune affermazioni contenute in articoli pubblicati dal quotidiano milanese nel 1996, per i Supremi Giudici tendenti a parificare le responsabilità degli esecutori dell'attacco di Via Rasella e dei comandi nazisti nella causazione della strage delle Fosse Ardeatine, erano gravemente lesive dell'onorabilità personale e politica del Bentivegna. Le affermazioni del Giornale furono:
che il battaglione Bozen fosse costituito interamente da cittadini italiani, mentre per la Cassazione facendo parte dell'esercito tedesco, i suoi componenti erano sicuramente altoatesini che avevano optato per la cittadinanza germanica.
che i componenti del Bozen fossero "vecchi militari disarmati", mentre per la Cassazione essi erano soggetti pienamente atti alle armi, tra i 26 e i 43 anni, dotati di sei bombe e "machine pistolen".
che le vittime civili fossero sette, mentre per la Cassazione nessuno mette più in discussione che furono due.
che dopo l'attacco erano stati affissi manifesti in cui si intimava ai responsabili dell'attacco di consegnarsi per evitare una rappresaglia ma, per la Corte l'asserzione trova puntuale smentita nel fatto che la rappresaglia delle Fosse Ardeatine era iniziata circa 21 ore dopo l'attacco, e soprattutto nella direttiva del Minculpop la quale disponeva che si tenesse nascosta la notizia di Via Rasella, che venne effettivamente data a rappresaglia già avvenuta[54].
Il 22 luglio 2009 la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di Elena Bentivegna (figlia di Carla Capponi e Rosario Bentivegna) contro il quotidiano Il Tempo che aveva pubblicato un articolo dove gli autori dell'attacco di via Rasella venivano definiti "massacratori di civili". La sentenza ha stabilito che l'epiteto utilizzato è lesivo della dignità dei partigiani e per questo diffamatorio, in quanto quello di via Rasella fu "legittimo atto di guerra contro il nemico occupante".[55]

1 commento:

raffa ha detto...

grazie per questo articolo davvero molto interessante. Seguo spesso blog su internet e documentari sulla seconda guerra mondiale in tv, quando li passano, quelli di History Channel sono a mio avviso molto esaustivi e attendibili, qui un pezzetto trovato su youtube, se dovesse itneressarti:
http://www.youtube.com/watch?v=uGOQD3_rBhg